RAFFAELLO SANZIOSommergibilista italiano in Estremo Oriente |
NOTA . Proprietà letteraria (copyright © 2008) di Domenico Carro.
Vive tuttora in Giappone un ex Sommergibilista italiano, dal pregiato nome di Raffaello Sanzio [*], che raggiunse quelle acque dopo aver navigato in tutti gli Oceani – nell’ambito di una durissima missione bellica iniziata a Bordeaux nella primavera del 1943 – e continuò a combattere contro gli anglo-americani fino al giorno della resa dell’Impero del Sol Levante.
La sua storia singolare ed eroica, altamente apprezzata dai Giapponesi, permane da noi poco conosciuta e oggetto di interpretazioni contrastanti. Essa non può tuttavia essere giudicata equamente se non si mettono prima bene a fuoco le specifiche e particolarissime circostanze di quelle vicende, che assunsero connotazioni inimmaginabili al momento dell’armistizio italiano.
Ma per poter valutare quanto accadde dopo l’8 settembre 1943 nelle più lontane propaggini del nostro teatro di guerra, che si estendeva dalle acque dell’Atlantico a quelle dell’Estremo Oriente, occorre tener conto innanzi tutto di quanto si verificò sul territorio nazionale.
Tutti conoscono quella immane tragedia che colpì direttamente l'Italia, trovatasi all'improvviso spezzata in due, sia sotto l'aspetto del controllo militare e della sua malfida copertura istituzionale (soggetta, da entrambe le parti, all’arroganza straniera), sia – e questa fu certamente la conseguenza più triste – nella coesione nazionale, penosamente incrinatasi nell'intimo della coscienza di ogni singolo cittadino.
Da un lato vi erano tutti quelli travagliati da una profonda ed irreversibile crisi di rigetto del fascismo, colpevole soprattutto di averli trascinati in una situazione non più sostenibile, dall’altra quelli convinti di dover continuare a combattere la guerra intrapresa e di onorare fino in fondo gli impegni assunti nell’alleanza tripartita. Pur essendo schierate l’una contro l’altra, entrambe le parti erano accomunate dai più alti ideali perfettamente coincidenti, ancorché contemplati da punti di vista opposti: il patriottismo (il “secondo Risorgimento” degli uni e la lotta “per l’onore d'Italia” degli altri), la difesa contro l’oppressione nemica (da una parte, la brutale occupazione dei Tedeschi; dall’altra, i bombardamenti a tappeto sulle città e su altri obiettivi non militari), la lealtà e la dignità (da un lato la fedeltà al Re, cui i militari avevano prestato giuramento, ed il ripristino delle libertà democratiche; dall’altro la rettitudine nei confronti degli alleati, la coerenza e la salvaguardia dell’onore militare).
Naturalmente vi furono – da una parte e dall’altra – anche delle canaglie e dei cinici opportunisti, che approfittarono del disorientamento generale per perseguire finalità tutt’altro che nobili. Ma la stragrande maggioranza degli Italiani pervenne alle proprie scelte con la massima onestà intellettuale, lasciandosi condurre dal proprio intimo senso del dovere, entro i limiti di quanto obiettivamente consentito dalle durissime necessità del momento. E spesso anche ben
oltre questi limiti, con un coraggio ammirevole.
Se, dunque, risulta possibile ritrovare delle motivazioni similari e un’indole comune in tutti gli Italiani schierati nei campi contrapposti, appare sommamente iniquo – oltre che ingeneroso – celebrare la ricorrenza della Liberazione come la festa della vittoria della mezza Italia retta e nobile sulla mezza Italia bieca ed ignobile. Molto meglio sarebbe, invece, ispirarsi all’antica norma romana che non riteneva lecita alcuna pubblica manifestazione di gioia per i successi ottenuti in un conflitto armato combattuto contro dei concittadini.
Per quanto ci riguarda direttamente, a distanza di oltre 60 da quella lacerante lotta fratricida, si dovrebbe finalmente poter riconoscere che l’intera Italia deve andare fiera di aver felicemente superato la tremenda prova della guerra civile, ovvero quella comune tragedia le cui sofferenze sono state subite da tutti, e da tutti affrontate con eroico coraggio, mitigandone in parte le conseguenze grazie al prevalente senso di umanità della nostra gente, e consentendo infine alla Patria di risorgere a nuova vita, con intraprendenza e rinnovate energie, nel benefico clima della ripristinata libertà e della democrazia. [1]
Per l’Europa, il maggior teatro marittimo della II Guerra Mondiale fu l’Atlantico, poiché da lì dovevano transitare i
rifornimenti navali vitali provenienti dall’America e dalle colonie britanniche, con materiali indispensabili allo sforzo bellico anglo-americano.
Essendo pertanto di prioritario interesse delle forze dell’Asse recidere tali linee di comunicazioni marittime, fu lì che si concentrarono le maggiori operazioni aeronavali germaniche, che poterono anche avvalersi di un importante contributo fornito dalla nostra Marina.
L’Italia partecipò infatti molto attivamente alla Battaglia dell’Atlantico, inviando in quelle acque ben 32 sommergibili oceanici [2], inquadrati nel XI Gruppo Sommergibili Atlantici e dislocati nella base navale allestita dagli Italiani nel porto francese di Bordeaux, base passata alla Storia con la sua denominazione telegrafica di “Betasom”.
I predetti sommergibili operarono in Atlantico per tre anni, dal giugno 1940 al settembre 1943 [3]. A partire dal 1942 le operazioni si spinsero anche verso le coste americane in conseguenza dell’avvenuta dichiarazione di guerra contro gli Stati Uniti (dicembre 1941). Tenuto conto della maggiore autonomia dei battelli italiani rispetto a quelli tedeschi, le missioni dei nostri sommergibili si svolsero in zone d’operazione distribuite in un’area oceanica molto più vasta: verso ovest, dalle acque a ponente delle isole Britanniche, a quelle al largo delle Bermude, delle Bahama, delle Antille e delle coste del Brasile; verso sud, nelle acque dell’Africa occidentale e meridionale, fino ad addentrarsi nell’oceano Indiano. Tali operazioni misero in luce le straordinarie qualità dei Comandanti e degli equipaggi italiani, per la loro professionalità, per il loro ardimento, per la loro resistenza alla fatica, per il loro coraggio nell’estremo sacrificio, per la loro indomabile combattività, ma anche per la loro profonda umanità, che sorprese e perfino irritò l’alleato germanico.
In effetti, se i numerosi successi conseguiti contro il naviglio nemico resero immortali i nomi di Comandanti come Carlo Fecia di Cossato (sommergibile Tazzoli), Gianfranco Gazzana Priaroggia e Luigi Longanesi Cattani (sommergibile Da Vinci), Salvatore Todaro (sommergibile Cappellini) e Primo Longobardo (sommergibile Torelli), in ogni occasione il comportamento di questi stessi personaggi riflesse splendidamente la peculiare e civilissima sensibilità della nostra gente.
Basti citare il caso di due dei tre successi conseguiti in mare dal Comandante Todaro, con l’affondamento di due navi di convogli britannici – il piroscafo belga Karbalo (16 ottobre 1940) e il piroscafo armato inglese Shakespeare (5 gennaio 1941) –, in seguito ai quali i naufraghi nemici furono raccolti a bordo del sommergibile Cappellini e portati in salvo, rispettivamente, sulle coste neutrali delle isole Azzorre e su quelle dell’isola di Capo Verde.
Combattendo contro le marine più potenti del mondo, come quella britannica e poi anche quella statunitense, le forze subacquee italiane non avrebbero potuto evitare di pagare un tributo alquanto elevato, in termini di perdite di uomini (800) e mezzi (16 sommergibili).
In compenso, esse assolsero ottimamente la loro missione, con dei risultati operativi di tutto rispetto: in totale, 110 navi nemiche affondate ed altre 4 danneggiate.
Nel primo semestre del 1943 venne avviato un programma di trasformazione dei sommergibili oceanici di Betasom in unità da adibire al trasporto occulto di materiale strategico fra le Potenze del Tripartito, cioè dalle coste atlantiche controllate dall’Asse al Giappone e viceversa.
Tale programma era scaturito da un accordo intercorso fra Italia e Germania su proposta del Comandante di Betasom, Capitano di Vascello Enzo Grossi, al Comandante in Capo della Marina germanica, Ammiraglio
Karl Dönitz. In cambio dei nostri battelli trasformati in sommergibili da trasporto, di cui la Germania aveva una prioritaria necessità, i Tedeschi avrebbero fornito a Betasom un pari numero dei loro nuovissimi sommergibili da armare con equipaggi italiani. Vi era in tale accordo un sicuro e ben bilanciato vantaggio reciproco. Al terzo anno di guerra, infatti, il sistema di combattimento dei nostri sommergibili si era talmente logorato e deteriorato da non consentire più di eseguire delle operazioni di attacco con un accettabile livello di affidabilità, mentre i Tedeschi continuavano a produrre nei loro cantieri molti sommergibili nuovi ma non avevano abbastanza Comandanti ed equipaggi esperti per poterli tutti impiegare utilmente contro il nemico. D’altra parte, rispetto ai corrispettivi tedeschi, i sommergibili italiani avevano delle caratteristiche – di capienza e di autonomia – che li rendevano ben più idonei al trasporto di materiali ed a lunghissime navigazioni oceaniche.
In applicazione dell’accordo, la Germania cedette all’Italia sette U-boot classe VII-c (rinominata “classe S” dalla nostra Marina), mentre un pari numero di sommergibili oceanici di Betasom iniziò i previsti lavori di trasformazione. Fra maggio e luglio 1943 i primi cinque sommergibili trasformati presero effettivamente il mare per la nuova missione di trasporto, ma due di essi furono affondati in Atlantico. La navigazione verso l’Estremo Oriente venne pertanto proseguita solo da tre battelli: il Cappellini, il Giuliani ed il Torelli.
I trasferimenti di questi sommergibili, che pur mantenevano il loro equipaggio italiano, erano stati posti sotto il controllo operativo tedesco, come prestabilito dall’accordo bilaterale. A bordo dei battelli italiani, cui erano stati assegnati dei nomi convenzionali dati dai Tedeschi (Aquila I, Aquila II, Aquila III, ecc.), erano anche stati imbarcati alcuni tecnici germanici.
I possedimenti dell’Italia nell’area dell’Oceano Indiano ed in Estremo Oriente erano allora costituiti dal vasto territorio dell’Africa Orientale Italiana (Eritrea, Somalia italiana e impero d’Etiopia) e dalla piccola Concessione italiana di Tientsin (46 ettari, con 10.000 abitanti), l’importante porto cinese vicino a Pechino.
Le tre unità navali che all’inizio della guerra erano dislocate in A.O.I. erano state inviate nelle acque malesi e del Giappone. Nell’estate del 1943 le due unità superstiti erano l’incrociatore coloniale Eritrea, che aveva il compito di fornire appoggio ai sommergibili oceanici italiani che giungevano da Bordeaux diretti a Singapore, e l'incrociatore ausiliario Calitea, che si trovava nel porto giapponese di Kobe per lavori.
In Cina, la città di Tientsin era stata occupata dai Giapponesi nel 1937, senza pregiudicare l’autonomia dalla Concessione italiana, che rimase presidiata da 300 marinai del Reggimento San Marco. L’Italia mantenne inoltre nelle acque cinesi la cannoniera posamine Lepanto e la piccola cannoniera fluviale Ermanno Carlotto. Nell’estate del 1943 queste due navi della nostra Marina si trovavano a Shanghai, insieme al transatlantico militarizzato Conte Verde.
In quella stessa estate del 1943, nell’Oceano Indiano avevano navigato i tre sommergibili da trasporto di cui abbiamo parlato, ovvero il Cappellini, il Giuliani ed il Torelli, posti sotto il controllo operativo germanico.
Il loro lungo trasferimento dalla base navale di Betasom verso l’Estremo Oriente, passando a sud dell’Africa, era stato oggetto di vari attacchi da parte di forze aeree britanniche ed aveva richiesto un severo controllo dei consumi di combustibile (per il Torelli si era anche reso necessario un rifornimento in alto mare da un
U-boot tedesco) poiché qualsiasi imprevisto avrebbe potuto comportare un prematuro esaurimento della nafta in pieno Oceano, con gravi rischi per la sicurezza dei mezzi e per la stessa sopravvivenza degli equipaggi.
Un ulteriore fattore di stress per il personale di bordo era costituito dalla grande quantità di carico imbarcato, che lasciava ai battelli una spinta di galleggiamento pressoché nulla, tanto che anche delle piccole avarie eventualmente occorse durante le navigazioni in immersione avrebbero potuto compromettere la possibilità di riemergere.
Nonostante tutto, i nostri tre sommergibili completarono felicemente le loro rispettive navigazioni, giungendo fra luglio
ed agosto nel porto malese di Sabang (isolotto a nord-ovest di Sumatra). Il Cappellini, in particolare, vi arrivò avendo completamente esaurito i propri depositi di nafta. Da Sabang, ciascun sommergibile proseguì il proprio trasferimento fino a Singapore, sotto la scorta dell’incrociatore coloniale Eritrea.
A Singapore i nostri sommergibili sbarcarono il carico destinato ai Giapponesi ed iniziarono ad imbarcare il materiale strategico da trasportare a Bordeaux per le esigenze dei Tedeschi. Tutte queste operazioni vennero effettuate, come prestabilito, sotto il controllo del comando germanico.
Un quarto sommergibile oceanico italiano, trasformato per il trasporto, era salpato dalla base di Betasom
all’inizio dell’estate. Si trattava del sommergibile Cagni, anch’esso incaricato di trasportare dei materiali pregiati necessari al Giappone, a similitudine di quanto effettuato dagli altri tre nell’ambito dell’accordo italo-germanico.
Dopo aver efficacemente reagito ad un attacco navale nemico al largo dell’Africa occidentale (colpì il grosso incrociatore ausiliario britannico Asturias, danneggiandolo in modo irreparabile), il Cagni proseguì la sua navigazione nell’Oceano Indiano, diretto verso Singapore.
È a tutti noto quanto tragiche siano state le conseguenze dell’8 settembre 1943 sulle Forze armate italiane. L’inattesa notizia dell’avvenuta firma del cosiddetto “armistizio” (in realtà, una resa incondizionata) da parte dell’Italia, annunciata per radio dal Presidente del Consiglio dei Ministri Pietro Badoglio in termini reticenti ed ipocriti [4], fu seguita dal precipitoso abbandono di Roma da parte dell’intero governo, che partì al seguito del Re, lasciando che le Forze Armate rimanessero disorientate e senza direttive proprio nel momento più critico del loro impegno bellico. Ne seguì la traumatica scomparsa (per annientamento o per dissoluzione) della maggior parte delle nostre forze terrestri ed aeree, di colpo tramutate in vittime impotenti della barbara ferocia dell’ex-alleato germanico, subito impegnato a sostituirsi ad esse ovunque fosse possibile.
In quelle tragiche circostanze la Marina non avrebbe potuto subire un’analoga sorte, trattandosi di un organismo congenitamente più coeso, dato che il nerbo delle sue capacità operative era racchiuso nelle sue Forze navali da battaglia. Queste, oltre tutto, si trovavano già pronte a prendere il mare per la loro ultima, eroica e disperata, missione contro il nemico. Le navi italiane, infatti, stavano per salpare proprio l’8 settembre, sotto il comando
dell’Ammiraglio Carlo Bergamini, per andare a contrastare il poderoso sbarco anglo-americano che, secondo tutte le fonti informative, era atteso il giorno seguente nel golfo di Salerno [5].
Quando apprese la notizia dell’armistizio, l’Amm. Bergamini, avendo consultato il proprio Stato Maggiore, decise di procedere all’auto-affondamento di tutte le navi. Messosi in comunicazione telefonica con il Ministro della Marina, Ammiraglio Raffaele de Courten, gli comunicò le proprie decisioni unitamente alle proprie dimissioni. Apprese tuttavia dal Ministro che le clausole dell’armistizio includevano la consegna della Flotta, e che il leale rispetto di tutte le clausole era, a quel punto, la sola via per garantire al popolo italiano una possibilità di ripresa. Obbedì, dunque, “al più amaro degli ordini” e seppe con il proprio carisma assicurarsi l’analoga obbedienza dei suoi comandanti e di
tutti gli equipaggi [6].
Salpata da La Spezia e da Genova, la Squadra navale da battaglia raggiunse le acque a nord della Sardegna nel primo pomeriggio del 9 settembre, quando la corazzata Roma venne colpita a morte da bombe razzo dell’aviazione tedesca, ed affondò portando con sé l’Ammiraglio Bergamini e 1.352 uomini dell'equipaggio. Poco distante, nelle acque della Corsica, la torpediniera Aliseo, comandata dal Capitano di Fregata Carlo Fecia di
Cossato, reagiva energicamente ad un attacco navale germanico, ingaggiando un conflitto a fuoco contro sette navi tedesche di armamento superiore, che affondava a cannonate.
Il giorno seguente la maggior parte delle navi della Flotta italiana, provenienti dalla Sardegna e da Taranto, si consegnò nella base navale britannica di Malta. Si trattò, per tutti i nostri comandanti, di una decisione estremamente sofferta, resa appena tollerabile dall’assicurazione che le navi avrebbero mantenuto la Bandiera italiana e non sarebbero state cedute all’ex nemico. Ma purtroppo per molte unità, ad iniziare dalle grandi corazzate, si profilava un destino tristissimo.
Vi furono comunque dei rifiuti d’obbedienza e delle crisi di coscienza insanabili, com’era logico potesse accadere a degli uomini che per tanti anni avevano duramente combattuto per la Patria e, permanendo pronti a combattere e ad immolarsi per essa, mal si adattavano al nuovo clima di supina, sbrigativa e gratuita arrendevolezza.
Fra gli Ufficiali che mostrarono di soffrire maggiormente della drastica mutazione degli indirizzi che pervenivano dall’alto, vi furono molti nomi illustri e perfino tre Medaglie d'oro al Valor Militare, che seguirono peraltro dei percorsi molto differenziati: i comandanti Giuseppe Cigala Fulgosi, Junio Valerio Borghese e Carlo Fecia di Cossato.
Il primo fu uno dei comandanti che rifiutò di portare la propria nave a consegnarsi agli anglo-americani [7], il secondo volle continuare a combattere a fianco alla Germania con tutto il proprio glorioso reparto [8], il terzo non sopportò più di veder crollare tutti i suoi ideali e si tolse la vita [9].
Fino all’8 settembre 1943, la base navale di Betasom era rimasta in piena attività, dovendo gestire sia i sommergibili ancora presenti nella propria area, sia le operazioni in corso per il trasporto occulto di materiali fra l’Atlantico e l’Estremo Oriente. Dopo la notizia dell’armistizio, i Tedeschi occuparono la base. Il comando fu comunque mantenuto dal Capitano di Vascello Enzo Grossi, che volle proseguire con il proprio personale la collaborazione con le forze germaniche, ed aderì successivamente alla Repubblica Sociale Italiana (costituita il 23 settembre). I sommergibili oceanici Finzi e Bagnolini, gli ultimi due trasformati per le esigenze di trasporto previste dall’accordo bilaterale, furono incorporati nella Marina Germanica, contraddistinti dalle sigle U.IT.21 e U.IT.22, ed armati con equipaggi misti italo-tedeschi.
Per le unità italiane in Estremo Oriente, l’ordine di Supermarina (il Comando superiore della Marina, operante dalla centrale operativa protetta di Santa Rosa, nel suburbio di Roma) contemplava una duplice possibilità: “Navi et sommergibili tentino raggiungere porti inglesi aut neutrali oppure si autoaffondino”. Di conseguenza, si registrò un comportamento diverso fra le unità in navigazione e quelle in porto. Fra queste ultime, tuttavia, vi fu anche una diversità di decisioni fra le navi di superficie ed i sommergibili. Iniziamo quindi a parlare prima delle unità in navigazione e poi delle navi in porto. Dell’anomala scelta dei sommergibili in porto si parla invece nel paragrafo successivo.
Le sole due unità della Marina italiana che l’8 settembre si trovavano per mare nell’Oceano Indiano furono l’incrociatore coloniale Eritrea ed il sommergibile oceanico Cagni: la prima era in navigazione tra Singapore e Sabang per predisporsi a dare appoggio al secondo, il cui arrivo era atteso a breve.
Avendo ricevuto la notizia dell’armistizio, l’Eritrea navigò alla massima velocità verso ponente, per sfuggire alla sorveglianza delle forze aeronavali giapponesi presenti nelle acque dello Stretto di Malacca, e raggiunse la base navale britannica di Colombo (isola di Ceylon) come gli era stato ordinato.
Il sommergibile oceanico Cagni, invece, si trovava ancora in pieno Oceano, quando ricevette gli ordini contrastanti emanati da Betasom e da Supermarina: da Bordeaux gli veniva detto di raggiungere Singapore al più presto, mentre da Roma l’ordine era di recarsi a Durban, nel Sud-Africa. Il comandante, Capitano di Corvetta Giuseppe Roselli Lorenzini, comprese che l’ordine proveniente da Roma rifletteva la volontà del Re. Invertì pertanto la rotta e si diresse verso il porto sudafricano, ove entrò in forma solenne, accolto con gli onori resi dall’ex
nemico. Egli era destinato a divenire Capo di Stato Maggiore della Marina, negli anni 1970-1973.
Quanto alle navi di superficie che appresero la notizia dell’armistizio mentre erano in porto in Estremo Oriente, tre di esse si trovavano in Cina, a Shanghai (cannoniere Lepanto e Carlotto, oltre al transatlantico Conte Verde), mentre una era in Giappone, a Kobe, per lavori (incrociatore ausiliario Calitea).
In quello stesso giorno, 9 settembre, esse si auto-affondarono tutte per non cadere nelle mani dei Giapponesi.
L’8 settembre, il sommergibile oceanico Cappellini si trovava già a Sabang, essendo del tutto pronto a ripartire per Bordeaux, mentre i sommergibili Giuliani e Torelli si trovavano ancora a Singapore, anch’essi già carichi delle merci pregiate da trasportare in Europa.
Avendo ricevuto la notizia della resa dell’Italia, fra il 9 e il 10 settembre i Giapponesi catturarono il Giuliani ed il Torelli a Singapore. Il comandante del Cappellini, Capitano di Corvetta Walter Auconi, aveva nel frattempo deciso, con il plauso del suo equipaggio, di continuare a combattere a fianco della Germania e del Giappone. Scortato da navi nipponiche, egli trasferì il Cappellini a Singapore, ove fu però catturato con l'inganno.
Senza prestare alcuna attenzione all’atteggiamento spontaneamente collaborativo dei tre equipaggi italiani, i Giapponesi li internarono in un campo di prigionia, mentre cedettero i relativi battelli ai Tedeschi, che avevano il comando dei propri U-boot nel vicino porto di Penang (Malesia).
Così, i nostri tre sommergibili oceanici Giuliani, Cappellini e Torelli, furono formalmente incorporati nella Marina Germanica, venendo rispettivamente contraddistinti dalle nuove sigle U.IT.23, U.IT.24 e U.IT.25.
Dopo alcune settimane di durissima prigionia nel campo di concentramento nipponico, ai tre equipaggi fu infine data la possibilità di riprendere a combattere con i vecchi alleati, come gli stessi equipaggi avevano richiesto fin dall’inizio (quando anche il Comandante e gli Ufficiali del Cappellini si erano mostrati dello stesso avviso).
D’altronde quella scelta di collaborare aveva solo allora potuto acquisire una legittimazione formale con l’adesione alla neo-costituita R.S.I. (23 settembre). È ragionevole presumere che il cambio dell’atteggiamento dei Giapponesi sia stato anche incoraggiato dai Tedeschi, per i quali non sarebbe stato semplice utilizzare efficacemente ed in sicurezza i sommergibili italiani senza la collaborazione di personale esperto e conoscitore delle sistemazioni e delle peculiarità di ciascun battello.
In effetti, a partire da quel momento i nostri tre sommergibili poterono riprendere ad operare in mare nel dispositivo aeronavale contro gli anglo-americani, essendo posti sotto comando tedesco ma con equipaggi misti italo-tedeschi. In tale anomalo assetto, molti sommergibilisti italiani continuarono a combattere a bordo dei propri battelli, ma con bandiera tedesca, per altri 20 mesi, ovvero fino alla resa della Germania (8 maggio 1945).
In quel periodo, uno dei tre sommergibili di costruzione italiana, il Giuliani (U.IT.23), venne colpito nel canale di Malacca dal sommergibile britannico Tally-Ho (14 febbraio 1944) ed affondò portando con sé anche cinque membri dell’equipaggio italiano, mentre gli altri Italiani si salvarono.
La resa della Germania non interruppe l’attività dei rimanenti due battelli di costruzione italiana, né quella dei membri italiani dei relativi equipaggi. A partire dal 10 maggio, infatti, il Cappellini (U.IT.24) e il Torelli (U.IT.25) furono incorporati nella Marina Imperiale Giapponese, che li contraddistinse rispettivamente con le sigle I.503 e I.504.
Così entrambi i battelli continuarono ad operare per ulteriori 4 mesi, cioè fino alla resa del Giappone (2 settembre 1945), armati con equipaggio misto italo-giapponese.
I nostri sommergibilisti imbarcati su quei due ultimi scafi italiani in Estremo Oriente continuarono dunque a combattere ben oltre la fine della guerra in Italia e in Europa, ed anche per quasi un mese dopo le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki (6 e 9 agosto): essi combatterono proprio fino all’ultimo giorno della Seconda Guerra Mondiale.
Pur avendo visto che le reazioni all’8 settembre presso le Forze navali in Italia non sono state del tutto unanimi (ferma restando l’ottima coesione sostanziale della Marina), colpisce la netta differenziazione riscontrata nei mari orientali, fra i sommergibili oceanici in porto e tutte le altre forze. Mentre queste ultime hanno agito in linea con le direttive di Supermarina, dirottando verso la più vicina base navale britannica, se si trovavano in navigazione, oppure auto-affondandosi, se erano in porto, una sensibile anomalia è costituita dall’atteggiamento assunto dai sommergibilisti in porto. Poiché non si trattò di un caso isolato, ma di un fenomeno comune a tutti e tre i nostri sommergibili pronti a ripartire per Bordeaux, è bene esaminare le motivazioni che accomunavano i tre battelli prima di esaminare le ulteriori ragioni particolari del nostro Raffaello Sanzio.
Questi sommergibili, occorre ricordarlo, stavano effettuando una missione particolarmente ardua e rischiosa (ai limiti delle sostenibilità tecnica, per degli scafi già molto logori e tremendamente provati) per delle esigenze di trasporto strategico necessario alla Germania e svolto sotto controllo germanico. Oltre tutto, si trattava di unità che, pur mantenendo ancora la Bandiera italiana e l’equipaggio italiano, erano già state destinate alla Germania in base all’accordo bilaterale di cui si è già detto (paragrafo III).
In tale situazione, i nostri equipaggi, che durante la lunga navigazione di andata avevano già operato gomito a gomito con dei tecnici tedeschi imbarcati a Bordeaux, ed avevano poi seguito le direttive del Comando degli U-boot tedeschi di Penang per le operazioni di scarico dei sommergibili, per l’imbarco del nuovo carico e per l’approntamento per la successiva navigazione, si erano evidentemente ben convinti che il loro compito – legittimamente assegnato da Betasom – fosse quello di operare per assolvere le esigenze dei Tedeschi. Essi potevano quindi essere
portati a considerare nient’affatto scandalosa, ma anzi abbastanza coerente, la prosecuzione del loro stesso impegno anche nel mutato scenario.
Naturalmente non stiamo parlando di sottili politologi o di dottori in Legge, ma di equipaggi di sommergibili negli anni Quaranta: ragazzi per lo più di origine umile, ma coraggiosi, volitivi e determinati, pronti a qualsiasi sforzo ed a qualsiasi sacrificio pur di ben figurare. E questa voglia di ben figurare era ancor maggiore nei confronti di alleati come i Tedeschi ed i Giapponesi, che sbandieravano le loro congenite capacità militari.
Peraltro, da parte dei nostri equipaggi era anche difficile accettare l’idea di aver sopportato una navigazione talmente dura e di aver felicemente superato tanti pericoli per una finalità e per un’alleanza che veniva ora ripudiata; e, anziché godere la meritata stima e riconoscenza degli alleati, dover invece subirne il giustificato rancore e l’iniquo disprezzo.
Per i nostri, dunque, la durezza della reazione germanica e nipponica era decisamente eccessiva e la diffidenza degli ex alleati non avrebbe dovuto verificarsi, visto che gli equipaggi italiani sapevano di essere dei valorosi e di essersi sempre comportati in modo leale. In tale situazione, anziché odiare i loro carcerieri, essi ne trovavano legittime e sacrosante le motivazioni, ed erano quindi pronti a dimostrar loro la propria perdurante lealtà e combattività. Non si trattava certamente della cosiddetta sindrome di Stoccolma (l’innaturale benevolenza del sequestrato nei confronti del sequestratore), ma di adamantina fierezza e dignità.
D’altronde essi confermarono l’identico atteggiamento anche quando la Germania si arrese: avendo avuto modo di osservare la totale dedizione al dovere dei Giapponesi, essi stessi, da bravi Italiani, non vollero essere da meno. Non lo fecero per convenienza, per trarne dei vantaggi immediati o nella prospettiva qualche successivo tornaconto personale.
Le sorti della guerra erano chiaramente compromesse e non si poteva intravedere alcun possibile interesse ad ostinarsi in una lotta senza speranza.
Ma quanto più si rammaricavano che l’8 settembre fosse stato percepito come in vile voltafaccia dell’Italia, tanto più volevano dimostrare quanto combattivo potesse essere un Italiano. Ed in questo essi hanno saputo tirar fuori quella straordinaria capacità prettamente italiana che è latente in tutti noi, e che la maggior parte degli Italiani ama inconsapevolmente [10].
Il sommergibilista Raffaello Sanzio [11] è l’ultimo sopravvissuto degli equipaggi dei tre nostri sommergibili in Estremo Oriente, ed ha avuto la ventura di assommare in sé un’impareggiabile esperienza su tutti e tre quei battelli, preceduti da un altro. Egli aveva infatti iniziato le proprie vicissitudini belliche a 24 anni, a bordo del sommergibile Bagnolini, che conseguì il primo successo in mare dell’Italia in quel conflitto (l’affondamento dell’incrociatore britannico Calypso nelle acque di Creta il 12 giugno 1940, due giorni dopo la dichiarazione di guerra), successo che fruttò una decorazione a tutto l’equipaggio. Con lo stesso Bagnolini egli era poi uscito dal Mediterraneo ed aveva raggiunto a fine settembre la base di Betasom.
A Bordeaux il nostro Sanzio imbarcò sul sommergibile Giuliani, che nel 1941 si recò nel Mar Baltico per operare presso la scuola per sommergibilisti di Gotenhafen, in cui venivano addestrati gli equipaggi destinati a combattere in Atlantico. Rientrato poi alla base di Betasom, egli partecipò alla fase più calda della Battaglia dell’Atlantico, quando i successi dei nostri sommergibili oceanici raggiunsero il picco massimo (soprattutto nel 1942). In quel periodo egli passò dal Giuliani, autore di 3 affondamenti di mercantili nemici, al Torelli, che raggiunse un totale di 7 navi nemiche affondate, ma che subì anche due durissimi attacchi aerei: il primo in pieno oceano causò tanti danni che il battello si salvò a stento dall’affondamento; il secondo al largo della costa brasiliana provocò molte vittime a bordo (incluso il ferimento del Comandante).
Nella primavera del 1943, mentre il Torelli era ai lavori a Bordeaux per la riparazione dei danni e la trasformazione del battello in unità da trasporto, Raffaello Sanzio poté assistere alla partenza per l’Estremo Oriente
del Cappellini – talmente appesantito dal carico che aveva solo la prora e la torretta fuori dell’acqua –, seguito
dal Tazzoli (disperso nel golfo di Biscaglia) e dal Giuliani. Il 16 giugno, infine, salparono il Barbarigo ed il Torelli, che si separarono dopo aver percorso insieme la rotta di sicurezza verso l’uscita dall’estuario; ma poi il primo non diede più alcuna comunicazione e risultò disperso per cause ignote.
La navigazione di trasferimento del Torelli fu sottoposta ad una intensa pressione da parte della sorveglianza delle forze aeronavali britanniche basate a Gibilterra, a Freetown e nel Sudafrica. Il sommergibile doveva trovarsi verso la parte più meridionale del suo percorso quando ricevette la notizia dell’arresto di Mussolini e della nomina del primo governo Badoglio (25 luglio: “la guerra continua”). È facile immaginare che, scossi dall’inattesa notizia e vedendo anche comparire i primi dubbi negli occhi dei loro alleati presenti a bordo (un colonnello giapponese e dei tecnici tedeschi), i membri dell’equipaggio avranno cercato di rassicurarsi vicendevolmente sul futuro dell’Italia e sulla continuità degli indirizzi nazionali, la cui garanzia era rappresentata dal Re.
Nulla era comunque mutato nelle loro crescenti preoccupazioni per i rischi di quella navigazione che, a causa della necessità di sfuggire all’implacabile caccia nemica, stava comportando un consumo di combustibile molto superiore alle disponibilità. Il coordinamento con il Comando tedesco di Penang si mantenne comunque strettissimo e consentì al Torelli di effettuare un rifornimento di combustibile in pieno Oceano Indiano (12 agosto) da un U-boot
venutogli incontro dalla Malesia. In tal modo il nostro sommergibile riuscì a raggiungere indenne Sabang (26 agosto) ed infine Singapore (31 agosto).
Quanto accadde a Singapore pochi giorni dopo, all’arrivo della notizia dell’armistizio, lo abbiamo già visto: i sommergibili italiani furono catturati e gli equipaggi internati come nemici, quali effettivamente erano diventati con il ribaltamento delle alleanze. Dopo alcune settimane, l’avvenuta costituzione della R.S.I. aveva dato agli equipaggi la possibilità di optare per la ripresa della collaborazione con i vecchi alleati. A quel punto Raffaello Sanzio aveva
aderito, come la maggior parte degli equipaggi, anche se gli Ufficiali erano invece rimasti tutti fedeli al Re [12].
Il Sergente motorista Sanzio era quindi tornato sul suo Torelli (ribattezzato U.IT.25) ed aveva continuato a partecipare per altri 20 mesi, con l’equipaggio misto italo-tedesco, alle operazioni belliche condotte dal Comando germanico della base sommergibili di Penang contro gli anglo-americani. Dopo la resa della Germania, egli aveva protratto ulteriormente il proprio impegno in guerra accettando di collaborare con i Giapponesi.
Il Comando nipponico lo aveva allora fatto passare sul Cappellini (ribattezzato I.503) quale Direttore di Macchina del battello, armato con equipaggio misto italo-giapponese. Con quest’ultimo sommergibile, a bordo del quale ancora aleggiava lo spirito del compianto Comandante Salvatore Todaro [13], egli aveva prestato il proprio servizio per gli ultimi quattro mesi della Seconda Guerra Mondiale. In quel periodo egli si era trasferito nell’Oceano Pacifico con il proprio sommergibile, unitamente al Torelli (I.504), per partecipare, dalla base navale di Kobe, alle ultime operazioni di difesa del Giappone contro gli assalti finali degli Americani.
Due settimane dopo le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki (6 e 9 agosto) egli era ancora al proprio posto: durante un bombardamento aereo americano sul porto di Kobe, era riuscito, con gli altri membri dell’equipaggio italiano, a salvare ancora una volta il suo sommergibile e ad abbattere un bombardiere statunitense B25 Mitchell: l’ultimo successo militare conseguito nello spirito dell’ormai dissolto Tripartito.
Lo stesso Raffaello Sanzio ne parlò poi in questi termini: “furono proprio le mitragliere Breda da 13,2 del mio sommergibile ad abbattere, il 22 agosto 1945, l’ultimo bimotore da bombardamento Usa. Accadde a Kobe, e siamo stati noi Italiani a tirarlo giù”.
La guerra era ormai giunta ai suoi ultimi giorni. Dopo la formale resa del Giappone (2 settembre) ed il conseguente sbarco degli Americani, questi ultimi catturarono anche i due sommergibili oceanici di costruzione italiana, e ne imprigionarono gli equipaggi, trattando i membri italiani come traditori. E traditori essi dovevano essere considerati anche dall’Italia, perlomeno nei primi anni del dopoguerra ancora avvelenati dall’odio fazioso e dai rancori della guerra civile. Com’era accaduto a tutti i militari che avevano scelto di combattere dalla parte della R.S.I., anche i superstiti dei nostri sommergibili in Estremo Oriente furono privati del grado e della pensione.
In Italia quel tipo di provvedimento così drastico e obiettivamente iniquo è stato successivamente superato e sostituito da un atteggiamento molto più equilibrato, con il riconoscimento dei diritti maturati (ciò che ha anche consentito la riammissione in servizio di molti ex aderenti alla R.S.I.). Questo diverso approccio sembrerebbe essere stato applicato anche a Raffaello Sanzio, se è vero, come è stato riferito da fonti mediatiche, che egli è stato nominato Secondo Capo nel maggio 1992 ed ha ricevuto il congedo definitivo nell’aprile 1995.
In ogni caso, lo stesso Raffaello Sanzio è rimasto sotto l’effetto del trauma provocatogli, nei primi anni del dopoguerra, dall’essere stato considerato in Italia alla stregua di un traditore, mentre in Giappone era stato insignito di un’onorificenza imperiale per la strenua sua difesa del Cappellini ed aveva anche ottenuto dal locale governo il riconoscimento del proprio grado e la concessione della pensione di guerra.
“Qui la gente è morta sino all'ultimo per la causa, e lo Stato in qualche modo se ne ricorda. In Italia chi ha fatto il suo dovere è stato tradito, umiliato, abbandonato”; “mi hanno condannato senza pietà. Mi hanno tolto i gradi. Dicono che ho tradito”. “Non è giusto essere trattati in questo modo. Io, insieme ai miei compagni, ho fatto soltanto il mio dovere. E anche bene. Pensate che con il Cappellini abbiamo combattuto nel Pacifico contro
forze preponderanti”. Sapendo di aver agito “conformemente ai principi di lealtà ed onore militare che mi avevano insegnato in Marina”, egli aveva infine deciso di stabilirsi in Giappone, di prenderne la cittadinanza e di cambiare il proprio cognome, adottando quello della moglie giapponese (Kobayashi).
Ora egli si trova ancora in Giappone, a Yokohama, ove ha appena compiuto 92 anni. Nelle ultime interviste rilasciate alcuni anni fa, si era mostrato sempre convinto che le nostre istituzioni continuassero a considerarlo un reprobo. E questa sensazione lo ha evidentemente amareggiato per tutta la vita, giustificando ai suoi occhi l’innaturale rigetto della propria Madrepatria: «L'Italia che ho servito in guerra mi ha tradito. Ora sono giapponese a tutti gli effetti». «Un Paese che tradisce i suoi figli non ha il diritto di essere amato»; “ho fatto soltanto il mio dovere, ma non mi sento più italiano”.
L’insolita e sorprendente storia di Raffaello Sanzio presenta evidentemente molti aspetti fascinosi e potrebbe essere oggetto di una narrazione piacevole per tutti i palati, se non rischiasse di interrompersi con un epilogo troppo amaro per il suo protagonista e per chiunque creda nel valore della italianità.
Le decisioni che egli assunse dopo l’8 settembre vanno valutate con grande cautela. In quel periodo, infatti, la scelta fu lacerante per tutti, ma ancor più per i militari. Anche in Italia, la prima reazione della grande maggioranza del personale militare era stata quella dell’indignazione e del rifiuto del voltafaccia badogliano; e l’obbedienza agli ordini venne giustificata, perlomeno in Marina, solo dal dovere di fedeltà al Re [14]. La situazione si presentava ovviamente più confusa per chi stava lontano, al cospetto del legittimo sdegno degli ex-alleati.
Occorre infine considerare che una maggiore difficoltà veniva incontrata dalle unità cui era stato conferito un più alto grado di combattività (com’era il caso dei sommergibili), poiché queste erano animate da una più intransigente volontà di salvaguardia dell’onore militare e da una più ferma determinazione nel proseguire la lotta senza deviare dalla direzione prestabilita. Il personale delle forze combattenti non è costituito da robot: occorre un’adeguata preparazione per formare degli uomini pronti a dare il meglio di sé, e perfino la propria vita, per una determinata causa; e non è pensabile convertirli improvvisamente a tutt’altro ruolo con un ordine secco. [15]
La scelta fatta da Raffaello Sanzio, insieme alla maggior parte degli equipaggi dei tre nostri sommergibili oceanici in Estremo Oriente, non fu in nulla diversa da quella effettuata dal Comando di Betasom, così come dalla mezza Italia che aderì alla causa perdente. Non si trattò della scelta giusta secondo il punto di vista odierno, ma egli la fece 65 anni fa in condizioni di totale eccezionalità ed in perfetta buona fede, ritenendo che quello fosse il suo duro dovere. In ogni caso, contrariamente a quanto avvenne in Italia durante la guerra civile, egli non fece nulla contro la propria Madrepatria né combatté mai contro i propri concittadini. Per contro, nella sua azione militare, egli seppe dare una rappresentazione estremamente positiva della combattività del marinaio italiano.
In definitiva, se è giusto ed altamente auspicabile procedere ad una vera e propria riconciliazione nazionale, ponendo da parte sia l’odio sia i vecchi rancori per le lacerazioni prodotte dalla guerra civile, a maggior ragione
risulta meritevole di un gesto di stima e di affetto questo vecchio combattente che volle rimanere fino in fondo a fianco dell’alleato giapponese, mostrando i lati migliori del carattere italiano, e che certamente non merita di sentirsi per questo abbandonato ed emarginato dalla Madrepatria.
A distanza di tanti anni, penso che il coraggioso Raffaello Sanzio non abbia bisogno né di un perdono, perché non ha nulla di cui farsi perdonare, né di una riabilitazione, poiché non si è mai disonorato, né tanto meno di qualche indulgenza di maniera. Tutto lascia pensare che quello che gli serva davvero sia un segno di attenzione, di simpatia e di apprezzamento per quello che ha sofferto e per le belle qualità evidenziate; un gesto tale da riscaldargli il cuore, facendogli percepire che l’Italia e gli Italiani gli sono oggi vicini e riconoscenti, nell’auspicio che egli possa tornare a sentirsi non solo un Italiano, ma anche fiero di essere Italiano, nonché fiero di aver saputo illustrare agli occhi dell’amico popolo giapponese quanto possa essere forte, costante e determinato un Italiano.
Roma, 31 gennaio 2008
[*] Anche se egli era conosciuto come Raffaello, e questo stesso nome è stato utilizzato anche nelle varie interviste e comunicazioni fornite in anni recenti da lui stesso e da suo figlio, risulta che il suo nome all'anagrafe fosse Raffaele. Questa notizia deriva dal forum
Betasom - XI Gruppo Sommergibili Atlantici, il cui socio sostenitore denominato "Leopard1" ha fornito, fra gli altri, i seguenti
dati:
- nome e cognome: Raffaele Sanzio;
- nato a Bari il 14 gennaio 1917;
- arruolato il 23 Luglio 1936 al Deposito CREM di Brindisi.
[ 1] Una lettura storica così distaccata da ogni residuo rancore ideologico e da ogni recriminazione sugli errori politici e militari commessi da una parte e dall’altra, potrebbe avere per tutti un triplice vantaggio.
Innanzi tutto porrebbe al centro della storia il Popolo italiano – cioè quell’entità antica e perenne che è ora “sovrana” dell’odierno sistema democratico – anziché gli effimeri decisori politici e militari, degni o indegni, che si sono alternati durante i 20 mesi di quella straziante sciagura.
In secondo luogo, agevolerebbe il superamento dei frustranti sensi di colpa nazionali per la guerra persa e per le ambiguità post-armistiziali, visto che ci abituerebbe a riconoscere e ad affermare a testa alta che gli Italiani, nel loro complesso, hanno saputo ammirevolmente superare una prova ben più ardua di quanto sia capitato agli altri belligeranti.
Infine, essa consentirebbe di attuare in modo effettivo e credibile quella riconciliazione nazionale che viene sempre auspicata, ma che non ha finora trovato alcun autorevole artefice.
[ 2] Sono elencati di seguito i soli sommergibili citati nel presente articolo.
a) Sommergibili oceanici assegnati a Betasom (in Atlantico): in tutto 32 unità, fra le quali:
R.Smg. Ammiraglio Cagni (classe Ammiraglio Saint Bon, da 1.703-2.164 tonnellate)
R.Smg. Enrico Tazzoli (classe Pietro Calvi, da 1.550-2.060 tonnellate)
R.Smg. Giuseppe Finzi (classe Calvi, come sopra)
R.Smg. Luigi Torelli (classe Guglielmo Marconi, 1.195-1.490 tonnellate)
R.Smg. Leonardo da Vinci (classe Marconi, come sopra)
R.Smg. Reginaldo Giuliani (classe Console Generale Liuzzi, 1.116-1.414 tonnellate)
R.Smg. Alpino Bagnolini (classe Liuzzi, come sopra)
R.Smg. Comandante Cappellini (classe Marcello, 1.060-1.313 tonnellate)
R.Smg. Barbarigo (classe Marcello, come sopra)
b) Sommergibili costieri operanti con la X Flottiglia MAS (in Mediterraneo): 4 unità, fra cui:
R.Smg. Scirè (classe Adua, 697-856 tonnellate)
[ 3] I dati storici sui sommergibili e sulle altre forze navali citate nel presente articolo sono stati tratti da vari testi dell’Ufficio Storico della Marina, dal sito ufficiale della Marina Militare italiana, nonché da molte delle pagine del sito privato “Regia Marina Italiana”.
[ 4] Alle 19.45 Badoglio lesse ai microfoni dell’EIAR il seguente comunicato: “Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza”.
La notizia era stata già diffusa alle 17.30 dagli Americani attraverso Radio Algeri, e confermata alle ore 18 dallo stesso Generale Eisenhower che parlò esplicitamente di resa senza condizioni: “The Italian Government has
surrendered its Armed Forces unconditionally”.
[ 5] Nella sua relazione, l’Ammiraglio de Courten descrisse l’atteggiamento dell’Amm. Bergamini da lui incontrato il giorno precedente (7 settembre): “Ebbi da lui piena ed esplicita assicurazione che la flotta era pronta ad uscire per combattere nelle acque del Tirreno meridionale la sua ultima battaglia. Mi disse che comandanti ed ufficiali erano perfettamente consci della realtà cui sarebbero andati incontro, ma che in tutti era fermissima la decisione di combattere fino all'estremo delle possibilità. Gli equipaggi erano pieni di fede e di entusiasmo. … Ricordo questo colloquio con commozione perché dalle parole di quell’uomo vissuto sempre sulle navi e per le navi emanava senza alcuna iattanza la tranquilla sicurezza di poter chiedere al potente organismo nelle sue mani lo sforzo estremo e il sacrificio anche totale.”.
[ 6] Prima di salpare
l’Ammiraglio Bergamini si rivolse ai propri comandanti dicendosi convinto che tutte le azioni da essi compiute fino ad allora, in 39 mesi di guerra, avessero “conquistato alla Marina il rispetto e l'ammirazione dell'avversario. E la flotta, che fino a un'ora fa era pronta a muovere contro di esso, può, ora che l'interesse della Patria lo esige, andare incontro al vincitore con la bandiera al vento e possano i suoi uomini tenere ben alta la fronte. Non era questa la via immaginata. Ma questa via dobbiamo noi prendere ora senza esitare, perché ciò che conta nella storia dei popoli non sono i sogni e le speranze e le negazioni della realtà, ma la coscienza del dovere compiuto fino in fondo, costi quel che costi. Sottrarsi a questo dovere sarebbe facile; ma sarebbe anche un gesto inglorioso e significherebbe fermare la nostra vita e quella dell'intera Nazione e concluderla in un gesto senza riscatto, senza rinascita, mai più”.
Il nome dell'Ammiraglio Carlo Bergamini è stato dato dalla Marina alla prima delle nuove unità italiane in costruzione nell'ambito del programma di cooperazione italo-francese FREMM.
[ 7] Il Capitano di Corvetta
Giuseppe Cigala Fulgosi si era illustrato eroicamente nel 1941, quando, al comando della torpediniera Sagittario, di scorta ad un convoglio con truppe germaniche dirette a Creta, aveva arditamente affrontato una rilevante formazione navale nemica e ne aveva affondato un incrociatore, salvando il convoglio da sicura distruzione.
Il 9 settembre 1943, essendo Comandante della torpediniera Impetuoso, partecipò alla ricerca e soccorso dei naufraghi della corazzata Roma e, insieme ad altre navi impegnate nella stessa operazione (l’incrociatore leggero Attilio Regolo, i cacciatorpediniere Mitragliere, Fuciliere e Carabiniere, le torpediniere Orsa e Pegaso), si recò poi a Minorca per sbarcare i feriti. Egli procedette poi all’auto-affondamento delle propria nave, per non consegnarla agli ex nemici. Lo stesso fece il Pegaso, mentre le altre navi rimasero comunque in acque spagnole e rientrarono in Italia solo nel 1945. A posteriori, il comportamento dei comandanti di tutte le predette unità navali fu giudicato conforme alle leggi dell’onore.
Al Comandante Cigala Fulgosi è attualmente intestata una nave della nostra Marina.
[ 8] Il Capitano di Corvetta
Junio Valerio Borghese, comandò lo Scirè dal 1940 al 1942 e condusse con questo sommergibile le missioni di attacco dei porti nemici con i “maiali”: violò per ben quattro volte la Rocca di Gibilterra e conseguì il più clamoroso successo della nostra Marina in quel conflitto con la vittoriosa violazione della base navale britannica di Alessandria d’Egitto.
Dopo l’8 settembre 1943, essendo comandante della Decima Flottiglia M.A.S. (l’efficiente unità speciale della Marina divenuta leggendaria per le sue audaci incursioni nei porti nemici e per i riconoscimenti ottenuti dai suoi uomini, con ben 32 Medaglie d’oro al Valor Militare), decise di continuare a combattere con tale reparto a fianco della Germania, con la Bandiera italiana, con le proprie insegne e con ampia autonomia. Mantenne analoga autonomia anche nei confronti della R.S.I., nata successivamente. Sulla sua collocazione, egli stesso scrisse: “nel momento della scelta, ho deciso di giocare la partita più difficile, la più dura, la più ingrata.”
Il nome del glorioso sommergibile Scirè è stato dato dalla Marina ad un modernissimo sottomarino entrato in servizio nel 2007.
[ 9] Il Capitano di Fregata
Carlo Fecia di Cossato aveva mostrato il suo eccezionale valore di combattente audace, determinato e professionale durante il suo comando del sommergibile oceanico Tazzoli – compiendo il maggior numero di attacchi (23) ed affondando il maggior numero di unità nemiche (16) – e nella vittoriosa azione navale condotta al comando della torpediniera Aliseo il 9 settembre 1943.
Poi si attenne disciplinatamente gli ordini per quasi un anno, fino a quando non sopportò più quanto stava accadendo e si tolse la vita. Nelle struggente lettera lasciata per la madre egli scrisse fra l’altro: “Da nove mesi ho molto pensato alla tristissima posizione morale in cui mi trovo, in seguito alla resa ignominiosa della Marina, a cui mi sono rassegnato solo perché ci è stata presentata come un ordine del Re, che ci chiedeva di fare l'enorme sacrificio del nostro onore militare per poter rimanere baluardo della Monarchia al momento della pace. Tu conosci che cosa succede ora in Italia e capisci come siamo stati indegnamente traditi e ci troviamo ad aver commesso un gesto ignobile senza alcun risultato. Da questa triste constatazione me ne è venuta una profonda amarezza, un disgusto per chi mi circonda e, quello che più conta, un profondo disprezzo per me stesso”.
Il nome insigne di
Carlo Fecia di Cossato è stato dato dalla nostra Marina ad un sommergibile (classe Sauro) rimasto in servizio dal 1979 al 2005.
[10] Lo si è visto anche recentemente, il 14 aprile 2004, quando pervenne in Italia la notizia del barbaro assassinio di Fabrizio Quattrocchi, guardia di sicurezza privata operante in Iraq. I cuori della stragrande maggioranza degli Italiani palpitarono di commossa ammirazione nell’apprendere che il nostro connazionale, mentre i terroristi stavano per ucciderlo a sangue freddo, cercò di strapparsi il cappuccio per guardare negli occhi i suoi carnefici e disse: “Adesso vi faccio vedere come muore un Italiano!”.
[11] I dati sul sommergibilista Raffaello Sanzio sono stati tratti dalle testimonianze riferite dalle seguente fonti (che presentano peraltro talune piccole discrepanze; queste sono state appianate attraverso soluzioni che andrebbero ulteriormente verificate):
a) 1986: intervista del giornalista e storico Arrigo Petacco, parzialmente riferita nell'articolo h);
b) 1986: dichiarazione ad un noto giornalista giapponese, citata nell'articolo i);
c) 1995: servizio da Yokohama del quotidiano Il Manifesto, pubblicato nell'articolo e) citato in f);
d) 2001: intervista di Kazunori Yoshikawa, collaboratore di Acta, nell'articolo g);
e) "L'italiano nella giungla", articolo pubblicato a firma P. D'E. dal quotidiano Il manifesto nell'agosto 1995;
f) "Meglio suddito del Sol Levante che Italiano e voltagabbana", articolo di Francobaldo Chiocci, pubblicato sul quotidiano Il Giornale, 18 agosto 1995;
g) "Il Giappone e la R.S.I.", articolo pubblicato a firma R.M. sulla rivista bimestrale Acta dell’associazione culturale Istituto Storico RSI, n. 49, Settembre-Novembre 2002, pagg. 6-7;
h) "Avventura di un sommergibilista italiano nel Pacifico", articolo di Alberto Rosselli, pubblicato nel sito Regia Marina Italiana, 2007;
i) "Pillole di storia: La guerra degli sconfitti", articolo dell'Amm. Paolo Pagnottella su Lo Specchio della Città - periodico per la Provincia di Pesaro e Urbino, aprile 2007.
[12] L’atteggiamento degli Ufficiali doveva essere anche influenzato da un’altra considerazione.
L’avvenuto cambio di bandiera dei sommergibili, divenuti a tutti gli effetti delle unità germaniche, non consentiva più alcun accettabile ruolo ai nostri Ufficiali: infatti per essi, allora come tuttora, lo scafo non ha alcun senso senza la nostra Bandiera Navale, che fa di quelle lamiere un pezzo del territorio nazionale. Questo spiega l’apparente cambio
di idea del Comandante e degli Ufficiali del Cappellini, che inizialmente volevano continuare la missione con il proprio battello (prima della sua cattura).
Per gli equipaggi, oltre al valore di primaria importanza attribuito alla Bandiera, può assumere un’importanza affettiva
di enorme rilievo anche la propria unità navale in quanto tale, poiché con essa si instaura un legame tanto più forte quanto maggiore è l’impegno che si è profuso per essa.
[13] Il Capitano di Corvetta
Salvatore Todaro era stato uno dei comandanti più carismatici nell’ambito dei sommergibili oceanici di Betasom. I brillanti successi da lui conseguiti con il Cappellini contro il naviglio nemico erano rimasti memorabili anche per i suoi gesti di umanità. Va ricordata a tal proposito anche la lettera che la madre di uno dei naufraghi del Kabalo, da lui salvati, gli inviò nel novembre 1940 per il tramite del Ministero della Marina: “Signore, fortunato il Paese che ha dei figli come voi! I nostri giornali pubblicano il racconto di come avete agito nei confronti di una nave che il vostro dovere ha obbligato a silurare. Vi è un eroismo barbaro e un altro davanti al quale l’anima si inginocchia: questo è il vostro … Siate Benedetto per la vostra bontà, che fa di voi un Eroe non soltanto per l’Italia ma per l’Umanità.”
Con il suo coraggio e con l’esempio, egli aveva abituato l’equipaggio del Cappellini alle imprese egregie ed era poi morto da eroe, dopo aver compiuto altre memorabili gesta con la Decima Flottiglia MAS nelle acque del Mar Nero e del Nord-Africa. Nella motivazione della Medaglia d'Oro al Valor Militare, conferitagli alla memoria, vi è scritto, fra l’altro: “Capacissimo, volitivo, tenace, aggressivo, arditissimo, … dimostrava al nemico come sanno combattere e vincere i marinai d'Italia.”
Il nome di Salvatore Todaro è stato dato dalla Marina ad un modernissimo sottomarino entrato in servizio nel 2006.
[14] Oltre alle perplessità ed ai rifiuti già segnalati per le navi provenienti da La Spezia e Genova (cfr. nota 7), analoghi sentimenti si registrarono anche presso la base navale di Taranto. Poiché anche lì nessuno dubitava che la sola via d'uscita accettabile fosse quella dell'auto-affondamento delle navi, l’ordine di partire per Malta, giunto il 9 settembre, fu accolto con sgomento e provocò anche episodi di aperta ribellione. L’ammiraglio Giovanni Galati, che manifestò il suo rifiuto di consegnare agli Inglesi la sua Divisione Incrociatori (Luigi Cadorna, Pompeo Magno e Scipione Africano), fu sbarcato, arrestato e rinchiuso in fortezza. L'approntamento alla navigazione della corazzata Giulio Cesare venne invece ritardato dall'ostilità dell'equipaggio, che non voleva consegnarsi al nemico: questa nave giunse pertanto a Malta con un giorno di ritardo. Dei seri fermenti si verificarono nella stessa base navale di Taranto anche l'anno successivo, quando si seppe che era stato arrestato il Comandante Fecia di Cossato, rifiutatosi di obbedire al nuovo governo (Bonomi II) che non aveva giurato fedeltà al Re.
[15] Questo problema è evidenziato molto chiaramente in quello che scrisse l’Ammiraglio de Courten circa le sue preoccupazioni nel pomeriggio dell’8 settembre: “mi pareva urgente ed indispensabile esaminare la situazione morale della Squadra da battaglia, la quale, essendo pronta ad andare a combattere, e quindi portata a quella temperatura che era indispensabile per affrontare una prova suprema, veniva a trovarsi da un momento all'altro nelle condizioni di dover invece praticamente consegnarsi nelle mani del nemico”.