CORAZZATA ROMA
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Non c'era più tempo da perdere. Il movimento di rotazione della nave era ripreso, facendo immergere di qualche centimetro il trincarino di dritta del ponte di coperta (cioè il bordo laterale del ponte, laddove questo si raccorda con lo scafo esterno). Questo allarmante segnale fece comprendere a tutti che occorreva sbrigarsi ad abbandonare la nave. Tuttavia i più si trattenevano ancora per aiutare ustionati e feriti ad allacciare il salvagente ed a scivolare delicatamente in mare. Vidi Ruri che, come una mamma papera seguita dai paperotti, portava dietro di sé tutto il personale della sua torre a poppa estrema, dove era più facile tuffarsi. I miei erano già tutti in acqua, come lo erano già tanti altri marinai, sopra i Carley o aggrappati ai cavi esterni di queste zattere di salvataggio, oppure appoggiati ad altri galleggianti di fortuna. A poppa molti esitavano ancora a mettersi in salvo, non volendo far mancare un ulteriore sostegno a chi era stato più duramente colpito dalla deflagrazione. È quello che feci anch'io, ma fu ben poca cosa se confrontata al comportamento di Toni: quest'ultimo, dopo essersi fatto detergere il sangue che gli colava copiosamente sugli occhi, offuscandogli la vista, non si buttò in acqua - come era stato caldamente incoraggiato a fare - se non dopo aver preso con sé l'amico Michele (il nostro solerte e generosissimo Polpo), reso pressoché cieco dalle estese ustioni riportate. Mi colpì, poi, l'apparente calma ostentata dal Tenente di Vascello Incisa della Rocchetta che, nonostante le penose bruciature che lo rendevano quasi irriconoscibile, si tolse la giacca, il binocolo e la pistola, e poggiò diligentemente il tutto su di un fungo di ventilazione; si sfilò poi le scarpe e le depositò davanti alla base dello stesso fungo, prima di scendere in acqua. Ripetei meccanicamente gli stessi gesti, piegando per bene la mia giacca ed allineando le mie scarpe alle altre, con quell'automatica cura dell'ordine a cui pareva impossibile rinunciare, anche se non aveva più alcun senso in quella situazione. Infine mi tuffai, mi liberai della pistola lasciandola andare a fondo e mi allontanai con vigorose bracciate.
L'acqua era abbastanza calda, il mare era calmo ed il salvagente faceva il suo dovere. Non c'era la necessità di raggiungere qualche altro galleggiante. Evitai pertanto di avvicinarmi a chi fruiva già di un punto di appoggio, per non rischiare di comprometterne la tenuta. Dopo un poco mi accorsi che tutti gli sguardi si erano improvvisamente fissati in direzione della nave. Mi girai anch'io e vidi, con una stretta al cuore, che il movimento di rotazione stava accelerando. Vi era ancora a poppa una trentina di persone, il cui salvagente rosso spiccava in lontananza. Poiché la nave sbandava sempre più, qualcuno rotolò in mare e tentò di allontanarsi a nuoto, mentre altri riuscirono ad aggrapparsi alla battagliola sul lato sinistro. Guardai la nostra Bandiera al picco dell'albero poppiero mentre descriveva un arco di cerchio sulla dritta prima di toccare il mare, ove parve fermarsi un attimo, prima di immergersi del tutto. La nave si stava ormai capovolgendo. Una decina di quelli che erano rimasti a poppa riuscirono a scavalcare la battagliola ed a sfruttare gli appigli degli oblò degli alloggi Ufficiali per arrampicarsi sulla carena. Tuttavia lo scafo non poté sopportare il nuovo assetto, rovinoso per le parti già gravemente ferite dalle due bombe: non appena la nave si fu completamente capovolta, con un agghiacciante schianto essa si spezzò in due. La parte poppiera assunse un'inclinazione di circa 45°, con le eliche ed i timoni in alto, sbalzando in acqua chi stava sulla carena; poi scivolò lentamente in mare e si inabissò. La metà prodiera della nave si erse invece in posizione verticale, fermandosi fuori dall'acqua come per mostrare un'ultima volta, con legittima fierezza, tutta la sua maestà. Poi, dopo essersi ulteriormente innalzata fino a coprire il sole, scese verticalmente in acqua. Guardavamo tutti ammutoliti quell'estremo addio della nostra nave. Ma quando, per ultimo, scomparve nei flutti anche il purpureo stemma dell'Urbe che ornava l'estremità della prora, si alzò spontaneo il grido con il quale si usava andare al combattimento: "Viva l'Italia, Viva il Re!", seguito da un ancor più commosso: "Viva il Roma!".
Erano le 16.15 quando la corazzata Roma si inabissò, portando con sé l'ammiraglio Bergamini e tutto il suo Stato Maggiore, oltre al Comandante Del Cima e gran parte dei suoi uomini. Prima di capovolgersi, tuttavia, la nave era sopravvissuta per più di venti minuti all'immane deflagrazione provocata dalla seconda bomba; e questo aveva consentito il tempestivo svolgimento delle operazioni di abbandono nave da parte di circa un terzo del personale imbarcato. Ma non tutti quelli che erano riusciti ad allontanarsi dalla nave in tempo utile poterono poi essere recuperati dalle unità soccorritrici, perché molti, purtroppo, ancora morivano pur stando in acqua. Si trattava di quelli che erano già arrivati al limite della resistenza quando erano ancora a bordo e non riuscirono poi a superare l'ulteriore trauma provocato dalla loro condizione di naufraghi. Ed infatti ne vedevamo ogni tanto qualcuno spirare in superficie, oppure scomparire nei flutti ed allontanarsi verso il fondo, mentre dal fondo stesso venivano in superficie le chiazze di nafta ed olio provenienti dalla nave insieme a vari oggetti galleggianti come fusti vuoti, carabottini, pezzi di legno ed altri rottami. Questa evidente connessione fra la superficie ed il fondo mi diede i brividi. Avevo visto tre o quattro Squali fra i naufraghi, e speravo che ce fossero altri, ma capivo bene che molti erano certamente lì sotto, a fondo con tutta la nave. In Accademia fra di noi cantavamo: "e fino a quando avrem vita, tutti fratelli sul mare sarem". Ora eravamo ancora tutti affratellati, non "sul" mare, ma "nel" mare. Quello che ancora ci manteneva fisicamente vicini era proprio l'abbraccio del mare.
Mi accorsi solo allora della presenza delle prime navi soccorritrici non troppo lontane da noi. Non avevo mai dubitato che ci sarebbero state inviate. In realtà, la prima unità ad intervenire lo fece d'iniziativa: non appena aveva avvistato l'enorme vampa davanti al torrione del Roma, il Capitano di Vascello Giuseppe Marini di Specchia, comandante del cacciatorpediniere Mitragliere, essendo il più vicino alla Divisione Corazzate (era proprio di prora al Vittorio Veneto), aveva invertito senza ordini la rotta per portare al più presto il proprio soccorso. Giunto sul posto, egli aveva avviato subito le operazioni di salvataggio, mentre si consumavano gli ultimi 11 minuti della vita del Roma. Nel frattempo, in seguito ad una rapida successione di ordini emanati dal comandante della VIII Divisione Incrociatori, ammiraglio Biancheri (sul Duca degli Abruzzi, passato vicino al Roma), e dal comandante della VII Divisione Incrociatori, ammiraglio Oliva (il più anziano in zona), erano stati distaccati per i soccorsi due gruppi navali: uno costituito dall'incrociatore Attilio Regolo e da tre unità della XII Squadriglia Cacciatorpediniere: Mitragliere, Carabiniere e Fuciliere; l'altro includeva tre torpediniere: Pegaso, Impetuoso e Orsa. Il primo gruppo era posto agli ordini del predetto comandante Marini, mentre la Squadriglia Torpediniere era comandata dal Capitano di Fregata Riccardo Imperiali di Francavilla, imbarcato sul Pegaso. Tutti gli ordini erano stati emanati più di cinque minuti prima dell'affondamento del Roma.
Quando venni raggiunto dalla motolancia del Mitragliere, il nocchiere a prora gridò "Prima i feriti!". Bravi ragazzi, pensai, stavano eseguendo perfettamente il proprio compito. Indicai con un gesto un gruppo di marinai da cui provenivano rantoli e lamenti deliranti. L'imbarcazione vi si diresse subito, agli ordini dell'Ufficiale preposto: era il Signor Costa, che, come appresi in seguito, si impegnò nell'intera operazione di soccorso con un tale coinvolgimento personale da tuffarsi egli stesso dalla motolancia per andare a recuperare il nostro Toni. D'altra parte tutto il personale delle navi soccorritrici partecipò con la massima dedizione al salvataggio dei naufraghi del Roma, mettendo in acqua non solo le imbarcazioni ma anche i Carley (che spiccavano in mare grazie alla loro vivace colorazione a strisce gialle e rosse), predisponendo a poppa molti salvagenti ed i sacchetti da lanciare in mare per far giungere una sagola ai naufraghi pervenuti sottobordo a nuoto - come accadde anche a me - e fornendo cure immediate ai bisognosi, nonché qualche capo d'abbigliamento ed un sorso di cognac a chi stava meglio.
Quando i due gruppi di unità soccorritrici ebbero concluso le operazioni di ricerca nelle rispettive zone, raggiungendo la ragionevole certezza che non vi fosse in mare alcun altro sopravvissuto, il totale dei naufraghi recuperati ammontava a 622 persone, di cui 503 a bordo dei tre cacciatorpediniere, 17 sul Regolo e 102 sulle tre torpediniere. Nel frattempo gli attacchi aerei germanici non erano ancora cessati. Non era passato nemmeno un quarto d'ora dall'affondamento del Roma, che era giunta l'ultima ondata di bombardieri Do 217 K-2 ancora armati con la bomba radioguidata Fritz X. Avendo concentrato i loro attacchi sulle due rimanenti corazzate, che continuavano a sparare ed a contro-manovrare, gli aerei erano riusciti a colpire solo l'Italia, provocando un'ampia falla. L'unità aveva comunque potuto essere stabilizzata ed aveva ripreso a navigare a 24 nodi. Dopo questi attacchi, era stato ordinato alle due corazzate di catapultare i loro caccia Re 2000 quale scorta aerea della forza navale: il solo lancio utile era stato quello del Vittorio Veneto, ma il suo aereo era rimasto in volo in zona solo 33 minuti, dovendo poi andare all'atterraggio entro il tramonto. Nelle prime ore notturne, mentre il grosso della FNB continuava ad allontanarsi verso ponente, il gruppo torpediniere fu oggetto di una prolungata serie di attacchi aerei condotti da bombardieri Do 217 K-3 armati con la bomba-razzo planante radiocomandata Hs 293, un vero e proprio missile aria-superficie. In un precedente attacco una di queste bombe era caduta molto vicino allo scafo del cacciatorpediniere Vivaldi, danneggiandolo tanto da determinare il successivo suo autoaffondamento. Gli attacchi contro le torpediniere risultarono invece inefficaci, grazie alla continua reazione delle armi contraeree e soprattutto alle rapide contro-manovre attuate dalle navi.
Allontanatosi dalla zona delle operazioni di soccorso, il gruppo Regolo-cacciatorpediniere aveva iniziato a navigare verso nord. Il comandante Marini, infatti, dopo aver lasciato libertà di manovra al gruppo torpediniere, si era orientato ad andare a Livorno o a Portoferraio, presumendo che la FNB fosse diretta alla Spezia. Avendo poi appreso che i Tedeschi stavano entrando a Roma, capì che nessun porto dell'Italia centrosettentrionale e delle isole era esente dalla minaccia germanica, mentre il meridione era ormai sotto il controllo angloamericano. Pertanto, mancando il collegamento radio con il Comando della FNB, ritenne comunque tassativa la direttiva dell'ammiraglio Bergamini di evitare che le nostre unità potessero cadere in mani angloamericane o tedesche. Decise quindi di dirigere sul più vicino porto neutrale, quello di Mahón, a Minorca, in modo da sbarcare al più presto i feriti e farli curare nel locale ospedale, rinviando al giorno dopo la verifica dei movimenti della FNB. Recepito il parere concorde degli altri tre comandanti, diresse la formazione navale verso le Baleari, procedendo a 28 nodi per potervi giungere prima dell'alba. Durante quella navigazione, le unità furono ripetutamente illuminate dai bengala di velivoli da ricognizione, presumibilmente britannici.
Anche il gruppo torpediniere, al termine degli attacchi dei bombardieri, aveva inizialmente navigato verso nord. L'analisi della situazione effettuata dal comandante Imperiali fu concettualmente coincidente con quella del comandante Marini e pervenne alle stesse conclusioni. Mentre egli tentava ancora di collegarsi con il comando FNB, aveva comunicato agli altri due comandanti la sua intenzione di raggiungere le Baleari qualora fosse rimasto in assenza di ordini. A quel punto la torpediniera Orsa, essendo ormai a corto di nafta, dovette dirigere indipendentemente verso l'isola di Maiorca, per entrare nella Baia di Pollensa. Il Pegaso ricevette poi da Supermarina l'ordine di dirigere su Bona (Algeria), ove avrebbe trovato una nave ospedale italiana. Dopo essersi consultato con il comandante dell'Impetuoso, Capitano di Corvetta Giuseppe Cigala Fulgosi (Medaglia d'Oro al Valore Militare), il comandante Imperiali valutò che quel messaggio dovesse essere considerato non autentico, "per l'essenza stessa dell'ordine" che era in contrasto con la direttiva tassativa ricevuta dall'ammiraglio Bergamini. Aumentò la velocità a 25 nodi e procedette verso Pollensa insieme all'Impetuoso.
Alle 8 del 10 settembre, il gruppo navale del comandante Marini (incrociatore Attilio Regolo e cacciatorpediniere Mitragliere, Carabiniere e Fuciliere), dopo aver distrutto i cifrari e gli altri documenti segreti, entrò nel porto di Mahón, ove provvide con le motobarche all'invio dei feriti gravi presso l'ospedale militare, su di un isolotto al centro della rada. Non essendo riuscite a rifornirsi di nafta, per le lentezze locali, le navi non poterono lasciare le acque territoriali spagnole entro le 24 ore, come prescritto dalla Convenzione dell'Aja del 1907. Esse furono pertanto internate e così dovettero rimanere per 16 mesi, prima di rientrare in Italia (gennaio 1945). Analoga sorte toccò alla torpediniera Orsa, che era giunta nella baia di Pollensa verso le 10.
Optarono invece per l'autoaffondamento il Pegaso e l'Impetuoso, giunti nella baia di Pollensa poco prima di mezzogiorno. Dopo avervi sbarcato i feriti più gravi, i due comandanti tornarono a consultarsi e valutarono che il prevedibile internamento non avrebbe posto le navi al riparo da un eventuale colpo di mano tedesco. Così, alle due del mattino dell'11 settembre, subito dopo il tramonto della luna, le due torpediniere salparono in piena oscurità ed assoluto silenzio, e si portarono a lento moto, con le luci di navigazione spente, a due miglia dalla costa. Lì misero a mare i Carley e vi sbarcarono gli equipaggi, con metà degli uomini all'interno delle zattere e metà in acqua, aggrappati ai cavi esterni. Erano presenti anche molti superstiti del Roma (fra di essi, anche il nostro Miro), che ebbero così la singolare ventura di essere naufraghi per due volte di seguito nell'arco di un giorno e mezzo. Le due navi, con il personale strettamente necessario per la manovra, si recarono poi oltre il limite dalle acque territoriali spagnole, su di un fondale superiore ai 100 metri. Fermate le macchine, i due comandanti fecero aprire le valvole di allagamento Kingston e sbarcarono insieme ai loro uomini, allontanandosi con le motobarche. Alle cinque, il Pegaso e l'Impetuoso affondarono, con la Bandiera di combattimento al picco. A posteriori, la Commissione d'Inchiesta Speciale incaricata di valutare l'operato dei due comandanti, giudicò la decisione di autoaffondare le navi "conforme alle leggi dell'onore militare".
Con i propri superstiti, l'equipaggio della corazzata Roma continuò a costituire un'entità a sé stante, anche se rimase a lungo frazionato fra locazioni diverse, quali Mahón, Pollensa ed ospedali vari. Il giorno dopo il nostro arrivo, furono seppelliti nel locale cimitero i 13 naufraghi che, nonostante le medicazioni ricevute a bordo, erano morti durante la navigazione verso le Baleari. Alle cure dei ricoverati presso l'ospedale militare contribuirono anche i nostri medici. Dopo qualche settimana, la morte di alcuni degli ustionati più gravi (fra cui il Tenente di Vascello Medanich) convinse le autorità locali ad inviare i pazienti in condizioni peggiori (incluso il nostro Polpo) nei più attrezzati ospedali di Barcellona e Madrid.
Fra ottobre e novembre, le notizie dell'avvenuta nascita della Repubblica Sociale di Mussolini (23 settembre) e della dichiarazione di guerra alla Germania da parte del Re (13 ottobre) crearono qualche turbativa anche presso di noi, poiché alcuni furono attratti dalla prospettiva di tornare a combattere con il vecchio alleato. Il fenomeno risultò comunque di dimensioni irrilevanti, nonostante l'indubbio fascino che all'epoca ancora esercitava la figura del principe Junio Valerio Borghese - Capitano di Fregata Medaglia d'Oro al Valore Militare e comandante della X Flottiglia MAS - rimasto in posizione autonoma a fianco della Germania. Ai primi di gennaio 1944, la nostra Ambasciata riuscì a far trasferire tutti i naufraghi del Roma e gli equipaggi di Pegaso ed Impetuoso in un albergo di Caldas de Malavella, in Catalogna. Il 10 giugno le pressioni spagnole ci fecero sottoporre ad un "plebiscito" per scegliere fra il Re e Mussolini: gli aderenti alla R.S.I. furono solo 19, su più di 1000 votanti. Il mese seguente rientrammo finalmente in Italia: con un viaggio in treno di una settimana (noi sei Squali in uno scompartimento tutto per noi) raggiungemmo la rada di Gibilterra; lì imbarcammo sull'incrociatore Duca d'Aosta che in due giorni ci portò a Taranto (15 luglio). Del Roma eravamo 596 superstiti.