LUIGI CARRO
Scrittore e Poeta (1863-1918)

Trascrizione di alcuni suoi poemi
pubblicati nel 1902


Sommario:

ORE VUOTE: poemetti in prosa e versi:

- Sogno d'oro.
- L'Immolata.
- Parlano i fiori?
- La Lanterna (monologo).
- L'Arte e il Dolore (dialogo).
- Corona.
- Crisanteme.
- Memento....
- Su la riva.
- A Roma.
- La gabbia dorata o la Galleria Umberto I
   (versi martelliani).

TRISTIZIE D'AMORE: versi della romanza omonima.

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[Indice GENS CARRA]


Luigi Carro

ORE VUOTE

Prosa e Versi

È santa però l'ora
al diletto spiritual sacrata.
         L'AUTORE

NAPOLI
STAB. TIP. LANCIANO E PINTO
Cortile S. Sebastiano 51
1902



SOGNO D'ORO

Stanco ormai dal lavoro mattinale, placidamente mi addormentai all'ombra di un faggio, sù l'erbetta molle del mio praticello.
La tranquillità del mio spirito non mi predisponeva a pensare, che il mio sonno turbato fosse da sogni: ma tuttavia spesso accade, che anche le facoltà spirituali lusingono. Ne ebbi uno.
Parmi che il mio campicello fosse tutto seminato di tombe. L'aria che ivi si respirava era greve afosa e consonava bene, come in una tetra armonia con quel sito lugubre.
Mentre io sbalordito giravo intorno lo sguardo, quasi avessi voluto numerare quegli avelli, fui sommamente sorpreso nel vedere che uno di essi schiudevasi. Guardai fiso con ispavento e tremai.
Uno scheletro si offerse al mio sguardo. Al sommo grado impaurito cercai fuggire, ma esso con la ischeletrita sua mano mi fè segno di arrestarmi; ed io vincendo la mia convulsione nevrotica, obbedii.
- Perché tremi? - mi disse con voce sonora. Dovrei io tremare di te.... di te che appartieni ancora a quella umanità che mi ha ucciso!.. Che mi ha ucciso capisci? perchè io fui un martire della libertà!
Ed io ascoltavo tremando.
- Or dimmi - continuava - si vive in pace nel tuo basso mondo?
Io esitavo nel rispondergli, ed egli a me più forte:
- Rispondi.
- Pace, risposi trasecolato - ma per gli uomini è ancora un’utopia la pace.
- Come! Il sangue nostro dunque non valse a dare ai popoli libertà e pace? L'umanità dunque s'insozza di brutture e vuole poi lavarsi nel sangue dell'umanità stessa? Ma questo è orrido! Ah! che se dovessi rivivere, rifiuterei la vita!
E disparve là nel fondo del suo sepolcro, serrandovisi.
. . . . . . . . . . . .
Mi risvegliai. Col dorso della mano mi stropicciai gli occhi ancor sonnolenti; e solo quando toccai l'erbetta molle del mio praticello, ebbi la certezza della vita reale.
Dal lontano e sconfinato orizzonte il sole baciava con i suoi ultimi raggi il mio lembo di terra: quei raggi che sono proprio del tramonto: più fulgidi e meno cocenti.



L'IMMOLATA


Semisdraiata in una sua poldrona color cremisi, Adalgisa carezzava col suo sguardo tenero ed in uno riflessivo le tendine del suo verone, che tanto bene la difendevano dai raggi del sole di Luglio.
Un insolito pallore intanto diffuso in su quel volto, ne velava il bello. Quella sua fronte larga e coronata da chiome d’inchiostro veniva sorretta da una di quelle bianche mani dalle dita aristocratiche e ben affusolate, mentre le provocanti linee del suo corpo risaltavan bene di sotto a quella sua veste crema dall'orlo merlettato.
Adalgisa era appena ventenne, ma di primo acchito glie ne avresti dati trenta, tanto possente era il cozzo de' pensieri turbinante in quel giovane cervello. Lo spettacolo naturalmente vario dei fiori che a iosa erano sparsi in quella stanza non offrivano a quella creatura nessun diletto. Ella sembrava di gelo dinanzi al fuoco della natura!
E la sarebbe rimasta un pezzo in quella posa di donna assorta, se lo scricchiolìo della porta d'ingresso che girava su i cardini non l'avesse, distolta.
Un bel vegliardo presentavasi in su la soglia.
Era suo padre: il marchese Giuliano Guascogna.
- Vengo forse a tediarvi, signorina? - disse con aria scherzosa.
- Siete sempre il benvenuto, caro babbo.
- E tu sempre da brava, cara la mia Adalgisa.
E appena le fu daccanto si curvò appiccicandole un bacio su la fronte.
La giovane accolse quell'atto paterno con un sospiro lungo e profondo indefinibile, a cui fe seguito un istante di silenzio.
- Dunque, mia bella fanciulla vengo questa volta per darti una bella nuova.
- Quale, padre mio?
- Il buono si vuol subito conoscere n'evero, figlia mia? Ebbene sappi che tra non molto tu sarai la baronessa di Santarsilia.
- Come!... esclamò meravigliata Adalgisa Io... baronessa di....
- Di Santarsilia - aggiunse piano il marchese.
La fanciulla abbassò gli occhi ed ebbe un tremito mentre le sue gote si colorirono di leggiero vermiglio.
Al vecchio Giuliano non isfuggì l'impressione provata da sua figlia; e sebbene uomo di mondo non seppe subito discernere se era quello l'effetto di femminile modestia o riluttanza. E fissandola con insistenza cercava leggere in quell'anima, scrutarne i sentimenti. Ma se un tale esame è ancora problematico per un fisiologo, non era men facile al vecchio marchese. E solo quando sul ciglio di Adalgisa fè capolino una lacrima.
- E che?... tu piangi? Ma è di tenerezza cotesto pianto?
La fanciulla taceva.
- Rispondi sù figlia mia, che forse non ami quel giovine barone, o che egli non sia degno di tè ?
- Ma dimenticaste padre mio, - disse Adalgisa con voce flebile dalla commozione e tenendo gli occhi al suolo - che non potrò mai essere sposa di alcuno. Dimenticaste che durante la malattia che tanto travagliò la mia infanzia la mamma credette offrire la mia verginità al Signore?
- Ubbie, ubbie figlia, cara. Da banda le superstizioni. Fu quello un errore di madre che merita perdono.
- Basta padre mio - interruppe la fanciulla con veemenza rizzandosi - gli ultimi voleri di una tenera ed affettuosa madre che muore non sono ubbie, ma leggi! E con passo fermo si diresse verso un angolo della stanza dove era sito un mobile su cui trovavasi un cassetto in legno. Lo aprì, ne trasse un foglio e rivolgendosi al genitore.
- Leggete, esclamò - È in esso contenuta l'ultima volontà della mamma mia.
Il vecchio marchese mal celando la sua commozione raccolse quel foglio e con voce malferma lesse:

« A mia figlia:
« Fu un sotterfugio l’averti tante volte detto in mia vita che tu eri consacrata
« al Signore. Il vero si è che un tuo avo morì folle ed io muoio di mal sottile; nelle
« tue vene quindi vi è il germe di due mali terribili. Non passare a nozze, te lo
« scongiuro: risparmia all'umanità sofferente una prole disgraziata.
« Addio - Tua madre ».

- Donna sublime!... esclamò il marchese asciugando questa volta anche lui una lagrima - Una menzogna che cela una nobile idea.
- E che va rispettata - aggiunse la fanciulla.
E tacquero, mentre il cinguettìo di una capinera giungeva sperdendosi in quella stanza, dolcemente.

*
*    *

Adalgisa non fu giammai consorte. Quella giovine eroina preferì al dolce nome di sposa quello austero di vergine dell'umanità; al talamo l'altare della scienza.
Morì qual visse: immolata in sì eccelso olocausto.



PARLANO I FIORI ?


Un nobile vegliardo ed antico filosofo a cui fu domandato un giorno cosa dice mai in sua favella un fiore ?
In risposta su di un marmo scrisse:
F - Fede salda in un avvenire felice, tutto pace e amore, fine di lotte cruenti e di guerre fratricide. Fusione di sentimenti, palpiti ed affetti.
I - Inno perennemente sublime al Creatore. Iride naturalmente profumato. Impero senza confini. Incivilimento desiato, ma non del tutto conseguito.
O - Onore dei grandi. Ornamento dei ricchi, di are, di talami e di tombe. Oro ed orpello dei diseredati. Orifiamma delle anime pure e delle coscienze rette.
R - Ricordo sempre vivo di un passato angoscioso o di amore, pur tanto breve, ma sempre grato al cuore. Rima dolcissima di quella poesia che nell'opera della Creazione Dio stesso cantò. Ricamo gentile del secondo regno della Natura. Regno senza re, dopo Dio.
E - Emblema d'ogni virtù.



LA LANTERNA
(monologo)


Il palcoscenico è al buio. Nel mezzo tavolo con una lanterna a quattro vetri, uno dei quali e rosso, uno verde e due bianchi. Si badi volgere al pubblico quella faccia dal vetro bianco.

Narro cose non mie, ma la storia della lanterna. È dessa che a mio mezzo parla: sarà breve, non stancherà di certo la vostra benevole attenzione. Ascoltatela, signori.
- Nell'agonia di un secolo che ripetutamente fu detto dei lumi vò far anche sentire la mia flebile voce.
Amica del povero, non curata dai ricchi, havvi in me qualche cosa di soprannaturale, poichè godo io, sola il dono della resurrezione, e vivrò quanto il mondo. Lottai con la scienza e col progresso e nella mia meschinità vinsi. Sparirà dalla terra qualche altra luce, ma io sarò sempre qual fui. E quando errabonda mi trascinerà il cenciaiuolo nelle ore notturne, guardando quei fanali spenti, che sembreranno castelli disabitati o corpi senz'anima, mi verrà da ridere.
La mia vita è stranamente bizzarra, non però priva di utilità per l'uman genere. Attaccata ad un veicolo rischiaro la strada al nottambulo viandande, raccogliendone la sua canzon d'amore. Ah! se avessi un anima di quante cose belle e brutte non avrei piena la mente. Impavida alle imprecazioni o bestemmie del cenciaiuolo. Testimone e complice incosciente di efferati e misteriosi delitti.
Dapertutto fo capolino: nei cimiteri e nelle visceri della terra e dei monti. Nelle prigioni sento il respiro affannoso del recluso provocate dai suoi sonni agitati dal rimorso. Per me non havvi segreto di sorta ; e nelle ispezioni alle sentinelle solo io sento lo scambio della parola d'ordine. Sulle reti ferroviarie, in grazie alle metamorfosi del mio volto (e qnì l'attore mostrerà i vetri colorati) sono di avviso alla vaporiera che nelle tenebre sbuffa come un mostro. Ahi! di quante raccapriccianti scene non fui spettatrice, ed in proposito me ne ricordo una la più terribile. Era una tetra notte invernale quando nella fitta oscurità un'ombra s'avanza, pare uno spettro. Si avvicina, è invece una donna giovine ancora dal viso smunto, macilento dalle chiome nere e scarmigliate, dalle vesti in brandelli a piedi nudi. Stringe tra le braccia una bambina. - Povera figlia mia, le dice, baciucchiandola tutta - domani non avrai più madre, sarai priva dei miei baci e delle mie carezze, ma vi sarà qualcuno almeno che ti darà del pane, quel tozzo di pane che non ho potuto darti oggi. - E singhiozzava.
La mia luce scialba si proiettava mestamente su quella martire della fame! In men che si dica, dopo aver girato intorno il suo sguardo stralunato, depone a piè di un albero il suo prezioso fardello di carne umana… e precipitosa corre là sul binario che per lei dovrà essere supplizio! Ma in quell'istante fatale mi sento afferrare con rabbia da una mano di ferro; è quella del cantoniere che mi solleva; mi agita, mi rigira... Sento il fischio prolungato della vaporiera che sibilando sinistramente per l'aria tetra mette il brivido… qualche grido di salvataggio… Respiro: il mostro di ferro ha rallentata la sua corsa.... quella madre è salva!
Alla bocca dei porti sono la stella dell'intrepido nocchiero. Non sono priva di virtù: sono pia ed allorchè tutto il mondo tranquillamente dorme io sola, tanto nei tempî quanto in aperta campagna penzolone dinnanzi a qualche vetusta immagine dipinta su pietra io prego e per tutti. Non manco di carità, e sui campi di battaglia ritta sulla tenda col mio occhio rosso fiammeggiante (mostrando il vetro rosso) chiamo alle cure i prodi feriti. Sono martire quando nel cuore di una caverna il masnadiere mi acceca, desiderando rimaner nell'ombra insieme al suo delitto!
Ed ora quale il guiderdone a tante fatiche? Sarò modesta nelle mie pretese. Non voglio ne baci e ne carezze: solo desidero che non facciate soffrirmi quando ho sete; ed allorchè i miei sudori renderanno poco tersi questi vetri che mi imprigionano, mi si lavi la faccia!…



L'ARTE ED IL DOLORE
(dialogo)


S'incontrarono un giorno nella capricciosa traiettoria della vita. Due figure diametralmente opposte. La prima semplice negli atti e nelle vesti e nella sua semplicità bella. Scarna, seminuda dal ciglio umido l'altra.
Dolore - Tu ridi e mi schernisci?
Arte - Perchè sono il vero.
Dol. - Sono dardi infuocati quelle tue occhiate che mi costringono ad abbassare la fronte.
Arte - Tu ferisci ed io risano, tu uccidi ed io risuscito, tu affliggi ed io consolo.
Dol. - Ma pur non dimenticare che senza di me saresti una larva.
Arte - Da te perseguitato a me si volge l'uomo in cerca di diletto.
Dol. - Ma non obbliare che pure alla fonte delle mie lagrime attingi spesso la tua forza e la tua vita. Non è forse col pianto mio o col mio terrore che scuoti l'animo delle platee?
Arte - Orsù consolati, non essermi più nemica, poichè l'uomo che ti fugge in vita ci ha uniti in morte. Per me parli una tomba: solo colà tra fiori, melodie e carmi saremo uniti in un amplesso.



CORONA


Sul tuo crin fanciulla bruna
posi languido, fremente
il bel raggio de la luna;
e l'albor del sol nascente
fa che ti baci in fronte.

Di palmizi, rose e tigli
è quaggiù caduco il serto
più dei pampini e dei gigli
vive eterno ognora certo
il bacio dell'amore.



CRISANTEME


Simbol sei di chi geme
caro amato crisanteme
di tristizia e gioia insieme
già la tua corolla è seme.

Sull'avel de la mia bella
deh sciogli in tua favella
il linguaggio del dolore,
ch'è la nenia del mio core.



MEMENTO. . .


Nobile dama
da le vermiglie gote,
che di bellezza
ognor fugace
altera vai,
nel dare cibo
al tuo ricciuto cane
ti sovvenga omai,
che pur nel mondo
havvi una gente
priva di pane.
E quando ancora
pigramente dimeni
il tuo bel corpo

tra le soffici coltri,
ricorda allora
da quel tuo letto
che pur nel mondo
havvi una gente
priva di tetto!
E dopo il tripudio
di una festosa danza,
nell'ora vuota
in cui ti vince
la crudele noia,
deh! pensa allora
che vi son cuori
pur senza gioia!



SU LA RIVA


Gorgeggia l'onda
che lassa e stanca,
placida e bianca
bacia la riva.
Sento il suo fremito,
la miro estatico.
Dessa è la mistica
voce del mare,
che dice al mondo:
Bello è l'amare!

Spumeggia irata
di santo orgoglio,
inver lo scoglio
batte e s'infrange.
Odo quel gemito
che il cor rabbrivida.
E l'onda gelida
che l'alga irrora,
carezza e bacia,
amore implora.



A ROMA


Del Tevere l'onda
Cangiatasi è in sangue
Lo zuavo che langue
Per morte nel sen.
Sei culla di forti
di prodi e di re:
lo dicono i morti
caduti per Te.

D'Italia sul capo
Fluente è la chioma:
Quel capo è la Roma
Dei prodi e dei re.
Sei culla di forti
di prodi e di re:
lo dicono i morti
caduti per Te.



LA GABBIA DORATA O LA GALLERIA UMBERTO I.
(versi martelliani)


Vuoi tu, lettor cortese
pur senza tante spese
goder dell'allegria?
va pure in Galleria.
È bellamente ornata
d'or fino pavesata.
È ricca d’ornamenti,
vi si cammina a stenti,
specie in certe ore,
di svago alle signore.
Ve n'è per tutt'i gusti,
per peccatori e giusti.
Libri, scarpe e ciambelle
oggetti d'arti belle,
liquori e paste fine,
brillanti da regine,
torron di Casapulla;
colà non manca nulla.
È un genial ritrovo
che pare sempre nuovo.
Vi trovi lo studente,
eppur chi studia niente,
il prete ed il dottore,
il cuoco ed il signore,
il grasso provinciale,
l'elegante ufficiale,
il sarto e la modista,
l’ardente socialista,
il comico e l'artista
il bravo musicista.
Ma pur fra tanta gente
vi è il tutto e pure il niente.
Oh! quanti visi arcigni
di spiriti maligni.
Che folla di sapienti
che puzza di saccenti
che dall'aria di prenci
sol nel cappello a cenci
fan riposare l'arte
cui hanno indegna parte.
Non cantan là gli uccelli,
v'è il frizzo dei monelli
che unito agli strilloni
che sempre giovialoni
vendendo carte e chiacchiere
rompono pur le nacchere
del rispettabil mondo
che tollera giocondo.
Dimmi or, lettore amato,
se ancor non ti ho seccato,
lascierai qualche altra via
per recarti in Galleria?
Ha l'incanto di fata
quella gabbia dorata!

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TRISTIZIE D'AMORE


Piú gioconda nel sol natura nova
Olezzi grati e canti diffondeva.
Quest'alma si dischiuse a vita nuova
e di gentili battiti fremeva
questo mio cor pur vergine d'amore.
Le leggiadre fattezze ed il candore
d'un'estasi sublime di mia Diva
rendevanmi la vita ancor giuliva.

Si vestiran di verde i nostri prati,
ritorneran le brine e le rugiade
gli augelli canteranno innammorati.
Ma deh! che in seno un tremito m'invade,
ed un pensier fatale l'alma opprime.
Resta di Lei quaggiù sol pianto e rime.
Non più carezze tenere, ma pene.
O valli, fonti e fiori ov'è il mio bene?

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