CORAZZATA ROMA
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La forzata inversione di marcia della FNB, eseguita con accostata ad un tempo, aveva ribaltato l'ordine dei reparti e delle relative navi lungo l'estesa formazione in linea di fila. La forza navale, pertanto, procedeva verso ponente avendo in testa le due Squadriglie Cacciatorpediniere, seguite dalle tre corazzate (nell'ordine Vittorio Veneto, Italia e Roma), dalle due Divisioni Incrociatori (VIII e VII) ed infine dal Gruppo Torpediniere. L'assetto delle navi era sempre quello della navigazione in guerra, con tutti i sistemi d'arma pronti a reagire a qualsiasi atto ostile, fermo restando che non c'era più alcun nemico dichiarato. Quelle che ora chiamiamo le regole d'ingaggio consistevano in quel momento nella sola libertà di fuoco per esigenze di autodifesa, secondo le istruzioni fornite verbalmente da Supermarina all'ammiraglio Bergamini; tali istruzioni riflettevano sia l'ordine del Governo (il proclama Badoglio contemplava solo reazioni "ad eventuali attacchi"), sia le disposizioni angloamericane (Promemoria Dick), che autorizzavano l'apertura del fuoco contraereo solo "in seguito ad un'azione nettamente ostile" compiuta da un velivolo. Devo infine aggiungere - perché molti, a posteriori, si sono posti questo interrogativo - che né il Roma, né alcun'altra nave della FNB, ostentava i segnali distintivi della neutralità (bandiera di segnalazione chiamata "pennello nero" e cerchi neri disegnati sui ponti, come richiesto dagli Anglo-Americani) per il semplice fatto che le istruzioni in tal senso pervennero via radio al Comando FNB solo in quel pomeriggio, e non vennero mai attuate dall'ammiraglio Bergamini.
L'attenzione delle nostre navi nei confronti della possibile minaccia aerea era stata elevatissima fin dalla prima mattina, quando anche nella nostra Plancia era risuonato il seguente messaggio del Comando FNB: "A tutte le unità dipendenti. Attenzione agli aerosiluranti all’alba", seguito più tardi dal segnale: "Massima attenzione attacchi aerei". Nell'arco della mattinata vi erano anche stati vari avvistamenti di aerei angloamericani e germanici. Gli allarmi aerei più significativi erano stati provocati da due ricognitori: un Martin B-26 Marauder della RAF, i cui avvicinamenti alla forza navale avevano provocato l'apertura del fuoco di varie unità, prontamente fermate dall'ammiraglio Bergamini; un Ju 88 tedesco che aveva comunicato il suo primo avvistamento della FNB verso le 10.30.
Dopo l'inquietante avvistamento del ricognitore tedesco, il Comando FNB aveva ordinato alle corazzate Italia e Vittorio Veneto di tenersi pronte a catapultare i velivoli da caccia Re.2000. Questi aerei, di cui vi era un esemplare sulle corazzate Roma ed Italia, mentre il Vittorio Veneto ne aveva due, andavano comunque lanciati solo all'effettivo avvicinamento di attaccanti, poiché dopo il lancio ed il loro breve intervento operativo dovevano atterrare nel più vicino aeroporto e non erano più recuperabili. Un lancio prematuro dei caccia rischiava dunque di privarci inutilmente di quella risorsa. Poco dopo la nostra inversione di marcia, il cacciatorpediniere Legionario, appartenente alla squadriglia che si trovava in testa alla formazione, segnalò l'avvistamento di un velivolo tedesco. Si trattava evidentemente del ricognitore che, come si seppe dopo, trasmise gli ultimi dati su di noi agli undici bombardieri Dornier Do 217 K-2 decollati dall'aeroporto di Istres, sullo Stagno di Berre a nord-ovest di Marsiglia, quale prima di tre ondate di questi velivoli (28 in tutto), per la prima volta armati con la loro nuova e segretissima bomba radioguidata "Fritz X". Questa missione, che fino al giorno prima era programmata per attaccare, in stretto coordinamento con noi, le navi angloamericane che venivano a sbarcare in Italia, era stata dirottata addirittura contro di noi, il loro ex-alleato, come se questa sterile ma sanguinosa rappresaglia potesse convincerci a ritornare al loro fianco anziché consolidare definitivamente la nostra sofferta scelta di attenerci alle clausole dell'armistizio.
Ma noi, allora, non potevamo nemmeno immaginare questo cieco livore, né nutrivamo alcuna preconcetta ostilità verso l'ex-alleato, ma solo una responsabile diffidenza. Per questo motivo, non appena pervenne l'allarme aereo per l'avvicinamento di una formazione di velivoli, verso le 15.20, il Roma come tutte le altre unità chiamò il posto di combattimento: mi recai dunque nella torre 3 da 152, di cui ero divenuto responsabile come direttore del tiro autonomo. I primi cinque bombardieri tedeschi, che volavano ad alta quota, furono avvistati dalle corazzate una decina di minuti dopo. Quando gli aerei superarono il sito di 60° (distanza angolare dall'orizzonte) tirammo un sospiro di sollievo perché quello era il limite per poter sganciare le bombe fino allora conosciute. Sembrò dunque che i piloti tedeschi non avessero intenzioni ostili.
Gli aerei non volavano più nella formazione iniziale, ma eseguivano dei volteggi indipendenti. Dalla direzione del tiro della mia torre, avendo la visuale libera sul lato dritto della nave e nel settore poppiero, seguivo con il binocolo la lenta manovra del velivolo che si era maggiormente avvicinato alla nostra verticale, ad alta quota. Il Tenente di Vascello Medanich manifestava in rete tutto il suo nervosismo perché i suoi cannoni da 90 di dritta erano in punteria fin da quando gli aerei erano a 14000 metri. A quella distanza anche la mia torre trinata avrebbe potuto effettuare un tiro di sbarramento utile, mentre ora l'elevazione era eccessiva. Ad un tratto, dal velivolo si staccò un puntino luminoso rosso, seguito da una scia bianca. "Ha fatto un segnale!", gridò una vedetta. In effetti somigliava ai segnali pirotecnici usati dagli aerei tedeschi per farsi riconoscere da noi. Ma l'oggetto con la scia continuò a scendere velocemente. Un'alta colonna d’acqua s'innalzò a pochi metri dalla poppa dell'Italia. Ecco dunque un'azione nettamente ostile: i nostri cannoni da 90 e le mitragliere poterono finalmente aprire il fuoco, e lo stesso fecero tutte le altre navi, costellando il cielo di nuvolette grigiastre. Mentre le unità iniziavano anche a contro-manovrare, con un serpeggiamento indipendente, altre bombe caddero in acqua: una seconda di poppa all'Italia, una di prora all'Eugenio di Savoia, una di poppa all'Attilio Regolo, una al traverso del Vittorio Veneto, seguita dopo diversi minuti da altre due vicino alla stessa corazzata.
Continuavamo ad essere sotto attacco e non fu più possibile catapultare i nostri aerei da caccia, che avrebbero comunque impiegato più di sei minuti a raggiungere la quota dei bombardieri. In quella fase convulsa, mentre il Vittorio Veneto schivava le due ultime bombe citate, il Roma fu oggetto di ben quattro attacchi di bombardieri (ognuno portava una sola bomba) in rapida successione. Questo è quanto risultò poi dalle deposizioni dei naufraghi, che descrissero la seguente sequenza: una prima bomba caduta in acqua in prossimità della poppa, la seconda caduta a bordo, la terza in acqua a sinistra e la quarta, purtroppo, a bordo. L'effetto della prima bomba che ci colpì, alle 15.46, mentre la nave contro-manovrava accostando a sinistra, fu tremendo. L'ordigno cadde infatti fra i due cannoni da 90 più vicini alla mia torre, perforò l'intero scafo ed esplose sotto la carena, grosso modo fra il locale delle caldaie 7 e 8 ed il locale motrice di poppa. Mancò la corrente, ma poco dopo fu ripristinata dal servizio elettrico. I cannoni da 90, dopo una breve interruzione, ripresero a sparare. La nave si inclinò per effetto dell'allagamento dei locali, ma la pronta compensazione effettuata dal servizio di sicurezza ridusse lo sbandamento a soli 2°. Anche l'inconveniente derivante della brusca riduzione di velocità fu parzialmente superato, consentendo all'unità di riprendere a navigare a 16 nodi.
In quel momento l'ammiraglio Bergamini ed il Comandante Del Cima furono visti per l'ultima volta da chi poi sopravvisse: il primo dalla Plancia ammiraglio osservava il punto di impatto della bomba; il secondo, dalla Plancia comando, seguiva con il binocolo gli aerei che volteggiavano, evidentemente preoccupato per le ridotte capacità di manovra della nave a causa della bassa velocità. Ciò nonostante, quando subimmo l'ultimo e fatale attacco, la nave stava ancora contro-manovrando con un'ampia accostata a sinistra. Quest'ultima bomba ci colpì alle 15.52 fra il torrione, la torre 2 da 381 e la più vicina torre da 152 di sinistra. L'ordigno andò ad esplodere nel locale motrici prodiero di sinistra, provocando un'imponente fuga di vapore, l'allagamento del locale ed il blocco delle motrici. La nave rimase dunque senza propulsione. Dopo una decina di secondi si verificò la deflagrazione delle cariche di lancio nel deposito munizioni da 152 ed in quello della torre 2 da 381. Questa torre, del peso di 1591 tonnellate, saltò per aria come un tappo di spumante e finì in mare. Seguì un'analoga deflagrazione del deposito della torre 1 da 381, vasti incendi a prora, l'interruzione di energia elettrica in tutta la nave, l'inclinazione del torrione verso prora dritta, il progressivo allagamento dei locali devastati e lo sbandamento della nave di circa 12° a dritta.
Nella mia torre, fui rassicurato dalle rozze imprecazioni di chi aveva sbattuto da qualche parte per il contraccolpo. Dunque, nessun ferito grave. Io stesso ero stato sbalzato a terra dal mio seggiolino, dopo aver battuto la testa contro la parete d'acciaio. Nella semioscurità avvertii un dolore lancinante ai timpani ed un'improvvisa vampata di caldo torrido e soffocante. "Fuori dalla torre!" urlai a tutti. Uscii per ultimo e, dopo aver raccomandato ai miei di non allontanarsi, passai sul lato sinistro per vedere cos'era quel bagliore verso prora. Il rumore era assordante, come un rombo cupo accompagnato dal crepitio di esplosioni. Passai a poppavia della torre 3 da 381 e della torre 4 da 152. Il personale della prima stava uscendo attraverso il portellone del telemetro superiore. Feci un cenno da lontano ad Enzo e Miro. Superata la torre 4, rimasi senza fiato: una gigantesca nube di fumo nero illuminato da vampe giallastre si sprigionava dalle viscere della nave a prora sinistra del torrione e si innalzava come il fungo di un'eruzione vulcanica, trascinando verso l'alto un'infinità di frammenti strappati alla nave. Era evidentemente avvenuta la deflagrazione (cioè la combustione veloce) dei depositi munizioni. Nello stesso momento apprezzai quella tragica conferma di quanto ci avevano insegnato sul pregio del nostro munizionamento: se avessimo avuto quello inglese, sarebbe esploso e la nave si sarebbe disintegrata. Continuai a procedere cautamente verso prora, ma non andai oltre il terzo cannone da 90, perché il calore diveniva insostenibile, ed aumentava anche il rischio di essere colpiti dalle imprevedibili esplosioni del munizionamento delle mitragliere.
Era comunque più urgente soccorrere quelli che avevo sotto gli occhi. Chinati presso alcuni corpi che giacevano orrendamente bruciati o mutilati vi erano già due sottufficiali e tre marinai che cercavano di aiutare e rincuorare quei poveretti, pur essendo anch'essi abbastanza malandati. Non si preoccupavano né per sé stessi né per la nave che gemeva sinistramente mentre si inclinava: volevano solo riuscire a rimettere in piedi i loro amici. Aiutai a tamponare qualche ferita, poi acchiappai al volo un infermiere che, sebbene anch'egli ustionato, si prodigò subito nelle medicazioni di emergenza. Mentre due di quei feriti riuscivano così a procedere verso poppa con l'aiuto dei compagni, mi accorsi che in quei momenti terribili il prevalente anelito che accomunava tutti quelli che incontravo era di dare ogni possibile aiuto a chi era stato meno fortunato. Vidi un marinaio infilarsi in un boccaporto chiamando a squarciagola l'amico ch'egli sperava trovare nel buio dei locali sottocoperta; un sergente togliersi il salvagente ed infilarlo delicatamente ad un collega malamente sfregiato; un nocchiere portare in spalla il proprio nostromo semisvenuto; un altro arrampicarsi in tuga per recuperare dal motoscafo un mucchio di salvagenti da distribuire a chi non l'aveva indossato, come previsto. Giunse infine da una breve ispezione all'esterno del torrione, senza avervi trovato segni di vita, il Tenente di Vascello Agostino Incisa della Rocchetta (il marchese) - direttore del tiro dei cannoni da 90 di sinistra, quasi irriconoscibile per le bruciature - che mi disse di far andare a poppa tutti quelli che potevano muoversi, procedendo con calma perché la nave sembrava ancora in grado di galleggiare.
Sparsi la voce, senza creare panico, fra i sottufficiali presenti. Dopo aver verificato il regolare avvio di questi spostamenti, mi soffermai un poco presso la torre 4 da 152, avendovi trovato tre Squali: due completamente sfigurati dalla vampata torrida (Marcello e Michele, detto il Polpo) e l'altro in buone condizioni (Toni). Anche loro scesero a poppa, mentre io andai a dare una mano ad un manipolo di volonterosi che si affannavano a liberare i Carley sistemati sul cielo delle torri: queste zattere di salvataggio finirono presto in mare, sia pure con qualche ammaccatura. Nel frattempo il Signor Incisa aveva constatato che la nave aveva ripreso ad inclinarsi. Accortosi di essere l'ufficiale di Stato Maggiore più anziano presente, ordinò "Abbandonare la nave!". In quel momento il Roma era stato raggiunto dagli incrociatori Duca degli Abruzzi e Garibaldi, che defilarono ai due lati della nave morente, rendendole gli onori.