Estratto da

   La Grande Guida   
dei vini di Sicilia

di Valerio Casalini
Edizioni Città Aperta, Troina (En), 2010


1)   Mini storia


Quando nel 734 a.C. Teocle , alla guida dei Calcidesi di Eubea, fondò la prima colonia greca sulla costa orientale dell’isola, non trovò terre selvagge, boscaglie incolte e popolazioni incivili e inospitali; le foreste vergini erano scomparse da millenni, il terreno era dissodato e le campagne intorno all’Etna erano già coltivate; le genti che vi abitavano non erano nativi dell’isola, erano immigrati da altre regioni, avevano un’organizzazione sociale ben strutturata, conoscenze agricole e artigianali ben sviluppate e capacità di relazioni commerciali con gli altri popoli.
Fondò la sua colonia a cui diede il nome di Naxos, costruì mura intorno alla città e distribuì la fertile terra al suo popolo. Oi barbaroi, i non Greci, che non erano poi così barbari, li accettarono di buon grado dando inizio ad una integrazione che oggi definiremmo interculturale e che caratterizzò tutta la storia siciliana fino alla conquista romana. Nell’arco di 250 anni tutta la costa ionica e meridionale fu colonizzata dai Greci.
Subito dopo i Calcidesi vennero i Corinzi, guidati da Archia, che fondarono Siracusa e i Megaresi, guidati da Lamis, che dopo diverse sfortune ottennero da Hiblon, re dei Sicani, le terre per fondare Megara Iblea. A questo primo nucleo di colonie seguirono tutte le altre da Messina a Selinunte, a Imera, che fu l’unica colonia sulla costa settentrionale. Sorse così una regione che per la raffinata civiltà e la potenza economica-militare di ciascuna colonia lo storico Timeo di Taormina definì “Magna Grecia”.

Si sente dire che i Greci hanno portato la vite e l’ulivo in Sicilia: sotto alcuni aspetti è vero, ma si impone, almeno per la vite, qualche precisazione.
La presenza della vite sulla terra è antecedente alla comparsa dell’homo di Neandertal, circa 100.000 anni fa. Il suo sviluppo vegetativo le consente di sopravvivere in entrambi gli emisferi solo fra il 30° e il 50° parallelo: la Sicilia, tutte le coste del Mediterraneo, Africa compresa, Mar Caspio, Mar Nero, regioni Caucasiche e parte delle regioni nordeuropee erano cosparse di viti selvatiche delle specie più diverse compresa la “vitis vinifera silvestris”, da cui sono derivati tutti i vitigni da vino, inclusi gli attuali.
I frutti della vite erano ben conosciuti dai popoli preistorici che abitarono l’isola; furono selezionati dai boschi secondo le esigenze di allora, probabilmente i più dolci e succosi. Con l’introduzione dell’agricoltura che nell’isola fu precedente alla colonizzazione greca, non si può escludere che viti selvatiche fossero assoggettate a qualche forma di domesticazione, come non si può escludere che fosse conosciuta anche la fermentazione dei frutti, quella spontanea almeno se non proprio quella controllata dall’uomo.
Prima della colonizzazione non mancarono i contatti con la Grecia, la civiltà minoica e i Fenici: lo attestano sia la mitografia che gli studi archeologici.
Il mitico e leggendario Minosse, re di Creta, non sembra avesse molti problemi a navigare verso la Sicilia; fu tradito e assassinato con i vapori del bagno nella reggia di Cocalo, mitico re dei Sicani; inseguiva Dedalo, l’architetto caduto in disgrazia, che, fuggito da Creta, nel suo peregrinare per la Grecia e il Mediterraneo, si era appunto rifugiato in Sicilia alla corte di Cocalo.
Un vaso potorio, anteriore all’anno 2000 a.C., riconducibile alle forme vascolari dell’isola di Creta, di sicura destinazione vinaria, è stato rinvenuto nella necropoli preellenica di Cozzo Pantano presso Siracusa.

I Fenici, che nel loro navigare si spinsero oltre le colonne di Ercole fino alle isole britanniche e alla Cornovaglia, per rendere sicuri i loro commerci, avevano fondato su tutte le coste dell’isola una miriade di avamposti ed empori che abbandonarono con l’arrivo dei Greci. Restarono solamente Mozia, Panormo e Solunto che nei successivi secoli divennero vere e proprie colonie saldamente in mani fenicie.
Sia i Fenici che la civiltà minoica di Creta conoscevano bene la vite e il vino: il primo centro di domesticazione della vite avvenne nei territori transcaucasici e le attuali Siria meridionale e Libano, da cui provenivano i Fenici, rappresentarono l’anello di congiunzione fra quel mondo e la Grecia. Da questi luoghi, intorno al XX sec. a.C., la vitivinicoltura si propagò prima nell’isola di Creta e poi in Grecia che nel complesso fenomeno della trasmigrazione della vitivinicoltura rappresentò il secondo centro di domesticazione.
Molto rinomato era il vino di Canaan (Fenicia): nelle funzioni religiose dell’area siro-palestinese era sempre presente una libagione di vino e addirittura nei templi era quasi sempre ubicata una cantina.
Se ne conclude che, prima ancora che i Greci fondassero le loro colonie, i popoli di Sicilia, attraverso i tanti contatti con il mondo pre-ellenico, avevano acquisito una certa dimestichezza con la vite, la viticoltura e la vinificazione.

In tutto questo periodo tuttavia la coltivazione della vite è documentata solo nella parte dell’isola colonizzata dai Greci. Scrive Diodoro Siculo: “A quei tempi (fine V sec. a.C. inizio IV sec. a.C.) la città (Agrigento) e la regione di Akragas vivevano una condizione di grande benessere …. C’erano vigneti di eccezionali dimensioni e bellezza e la maggior parte delle terre era coperta di ulivi, la cui massiccia produzione era destinata al commercio con Cartagine.”
Ciò che differenziò i Greci dalle altre etnie su suolo siculo e che fu il segno distintivo della loro superiorità, restando nel campo della vitivinicoltura, fu l’aspetto culturale ad essa connesso ed una competenza tecnica unica.
Le pratiche agricole erano quanto di più attuale si possa pensare: veniva praticata la selezione clonale, la potatura corta e quella verde, concimazioni naturali e frequenti lavorazioni superficiali del terreno. La raccolta manuale, attenta a non danneggiare i grappoli, era il prodromo di una vinificazione finalizzata ad ottenere prodotti di qualità superiore, così la fermentazione, i travasi, la conservazione e il trasporto del vino.
I Greci abbandonavano i luoghi di origine non per spirito di avventura o per mire espansionistiche; a spingerli era la necessità di trovare quelle terre coltivabili che scarseggiavano in patria; la particolare conformazione montuosa della Grecia e il massiccio incremento demografico dovuto all’elevato grado di civiltà e di benessere raggiunto rendevano insufficienti i pochi campi disponibili. La viticoltura era l’elemento di coesione dei gruppi e di distinzione della società, il reperimento delle terre e la loro distribuzione l’obiettivo finale del movimento migratorio.

E fu proprio la terra l’elemento caratterizzante di tutta la storia siciliana. Una terra fertile e generosa, fonte di enormi ricchezze, che conquistò tutti i popoli che nel corso dei millenni si alternarono nella sua conquista.
Anche durante le lunghe guerre per la supremazia degli uni sugli altri l’attenzione a non distruggere le campagne o a recuperare rapidamente ciò che era stato inevitabilmente distrutto fu grande.
Timoleonte, sbarcato in Sicilia nel 344 a.C. da Corinto con un manipolo di soldati, liberò dalla tirannide molte città greche e sconfisse più volte i cartaginesi. Ristabilita la pace, ripotò a coltura grandi estensioni di terre abbandonate, rifondò diverse città greche precedentemente distrutte, prima fra tutte Megara Iblea, e con le enormi ricchezze della produzione agricola restaurò templi, teatri ed edifici pubblici.
Il console romano Levino (209-208 a.C.), testimonia Livio, dopo la caduta di Agrigento “costrinse i Siculi a deporre finalmente le armi e a riversare la loro attenzione alla coltivazione dei campi, affinché l’isola producesse non solo per i suoi abitanti, ma anche per sfamare la plebe romana.”
Gli uomini di Euno, capo della prima rivolta di schiavi nel 139 o 135 a.C., secondo Diodoro, ricevettero ordine di non bruciare le fattorie, di non distruggere gli attrezzi agricoli e i raccolti e di non uccidere i lavoratori delle campagne.
Salvio, capo della seconda rivolta di schiavi, fondò il suo breve regno, 104-101 a.C., a Triocala (odierna Caltabellotta), così chiamata perché disponeva di tre splendide risorse: molta acqua sorgiva di rara dolcezza, una campagna fertilissima adatta alla coltura delle vite e dell’ulivo, e una eccezionale sicurezza, giacché era quasi una roccia inespugnabile.
Sono gli esempi che la storia evidenzia maggiormente, ma è verosimile ritenere che la preoccupazione e l’interesse fu di tutti; anche quando le città venivano rase al suolo e intere popolazioni trucidate e vendute come schiavi, attrezzi agricoli e colture venivano in qualche modo salvaguardati: rappresentavano il ghiotto bottino dei nuovi vincitori.

Dal 264 al 201, anno in cui ebbe fine la seconda guerra punica, la Sicilia fu sconvolta dalle guerre che Roma portò contro Cartagine, guerre che si svolsero quasi completamente sul territorio isolano. Con la sconfitta dei Cartaginesi, la Sicilia, divenuta possedimento romano, fu elevata, prima fra tutti, al rango di provincia.

La differenza con il precedente periodo greco fu enorme. I Greci non mostrarono mai un interesse particolare ad unificare l’isola sotto un unico governo centrale. Le poleis, pur caratterizzate da un grado di civiltà alto e condiviso, non avvertirono l’esigenza di una qualche forma di amministrazione comune né di estendere il proprio dominio sui territori occupati dai Sicani, Siculi, Fenici ed Elimi, la cui pallida individualità non era certo un freno alla loro conquista. La terra fu di tutti, suddivisa fra quanti la potevano coltivare, e il commercio con l’estero di vino, olio, ma anche di altri prodotti, era assai fiorente.
Con la conquista di Roma, la Sicilia fu solo romana. La terra divenne demanio dello stato, ager publicus, o proprietà privata di senatori patrizi e, successivamente, anche dell’imperatore. La produzione di grano, da distribuire gratis alla plebe romana, e la pastorizia furono le attività preminenti. Il fundus, piccolo appezzamento di terra, fu accorpato ad altri e divenne massa, latifondo.
La vite, l’ulivo, gli ortaggi furono relegati nelle poche proprietà rimaste in mano ai privati: servivano a soddisfare il consumo interno. Eppure il vino siciliano riuscì a varcare i confini dell’isola: alcune giare di vino, scoperte a Pompei e in Africa, portavano la scritta Vinum Mesopotamium. La regione Mesopotamica era un ricco territorio intorno alla città di Camarina sulla strada costiera fra Siracusa e Agrigento.
I Greci avevano portato con sé, sia durante il periodo della colonizzazione che dopo, più sottoforma di semi che di talee, molti dei vitigni esistenti in patria. Le inevitabili interazioni con le viti selvatiche esistenti, gli incroci spontanei e l’intervento dell’uomo avevano selezionato tipologie di vitigni, da cui si ricavavano, non solo in Sicilia, ma in tutto il meridione interessato dalla colonizzazione greca, i migliori vini dell’epoca. È verosimile pensare che tale prezioso patrimonio ampelografico si sia in qualche modo degradato con la politica cerealicola romana.

La caduta dell’impero romano d’occidente, ufficialmente decretata con la deposizione dell’imperatore Romolo Augustolo nel 476 d.C., fu, per il mondo occidentale, ma non per la Sicilia, un cataclisma storico di portata vasta e profonda.
La Sicilia non fu toccata dai gravi fenomeni che interessarono le altre regioni d’Italia e che resero possibile ad uno sparuto manipolo di barbari di occupare, senza reazione alcuna, territori culla di civiltà e ricchezze. L’Italia era ridotta ad un punto di tale degrado che gli stessi invasori non potevano trattenersi a lungo in città sprovviste di tutto, persino di abitanti, e in campagne deserte e squallide. La viticoltura scomparve, anche se in qualche sporadico luogo di tanto in tanto cresceva una piccola vigna. Si riprese solo a partire dall’anno 1000, dopo che per secoli era stata relegata nei campi protetti dei conventi.
Le campagne siciliane, e con esse l’economia, in Sicilia rimasero quelle di sempre. Le orde barbariche che da Nord a Sud imperversarono per l’Italia non oltrepassarono mai lo stretto. Solo nel 440 d.C. da Sud, seguendo la strada che qualche secolo prima avevano percorso i Cartaginesi, arrivarono i Vandali, quando ormai la loro furia distruttiva era già tutta esaurita. Tennero così poco alla Sicilia che nel 477 la cedettero ai Goti senza combattere, dietro un pagamento di un semplice tributo. Teodorico, successore di Odoacre, re dei Goti, non portò mai il suo popolo in Sicilia, anche se per diritto di conquista gli spettava un terzo delle terre coltivate; fu attento a tutelare la vita economica dell’isola, in particolare le grandi proprietà terriere, tutte in mano a senatori e patrizi la cui collaborazione era essenziale per lo sviluppo di un buon governo. Si limitò ad inviare funzionari statali e militari di presidio.
Qualche anno dopo la sua morte, nel 526 d.C., l’esercito dell’imperatore d’Oriente Giustiniano, comandato da Belisario, sbarcò a Catania accolto come un liberatore da un popolo entusiasta: ai Goti, invisi per aver imposto negli anni una sempre più eccessiva pressione fiscale, non rimase che lasciare rapidamente l’isola. Iniziò un periodo lunghissimo di pace e prosperità economica che si protrasse fino al 14 luglio del 827 d.C., quando cento navigli salparono dal Magreb alla volta della Sicilia e il 17 successivo sbarcarono a Marsala 700 cavalieri e 10.000 guerrieri mussulmani: erano arabi e berberi.

Con l’avvento dei Bizantini per la Sicilia non cambiò molto sul piano istituzionale e sull’assetto proprietario delle terre rispetto alla situazione romana precedente. All’imperatore romano d’Occidente si sostituì quello d’Oriente; i comuni mantennero la loro autonomia amministrativa.
Solo successivamente, quando la pressione mussulmana cominciò a diventare sempre più pressante, la Sicilia, da provincia, fu trasformata in Thema, cioè in distretto militare: il governatore, detto stratega, fu un generale dell’esercito invece che un civile; sulla politica e sulla amministrazione prevalse la difesa del territorio dalle aggressioni esterne.
Importante, ai fini del nostro interesse sul vino, la scelta di pagare i soldati con l’assegnazione di lotti di terreno, anziché in denaro. I nuovi soldati-contadini, a simiglianza dei monaci di San Basilio, portarono con sé vitigni dai luoghi di provenienza, dall’attuale Bulgaria, da Romania, Serbia, Croazia. Inoltre, a differenza di quanto avevano fatto i Greci, portarono talee piuttosto che semi.
Questi vitigni sono verosimilmente i progenitori degli attuali sia in Sicilia che in tutto il meridione; parentele e percorsi di provenienza potranno essere definiti con le moderne analisi del DNA.

I vini che se ne ricavavano erano denominati con riferimento al luogo di origine, raramente con riferimento al vitigno o ad altro. Dei vini siciliani del periodo greco non c’è molta memoria storica, resta invece qualcosa del periodo romano.
Uno dei vini più famosi era il Mamertino, prodotto a Messina; il suo nome sarebbe stato Messeniano, se i Mamertini, guerrieri mercenari, non fossero stati relegati a Messina. Era il vino prediletto da Giulio Cesare. Vengono ricordati anche i vini di Selinunte, di Catania, il Tauromenitanum, vino di Taormina ( Tauromenium), costruita dopo la distruzione di Naxos, e il già ricordato Mesopotamium. Famosissimo era anche il Moscato di Siracusa o di Noto, che allora, come oggi, era una delle gemme più fulgide dell’enologia italiana. Era il vino Biblino, ricavato dall’uva Biblina, originaria della Fenicia e trasportata, in tempi remotissimi, prima in Tracia e poi a Siracusa. Secondo Ateneo, il Biblino era il vino Pollio, che prese il nome da Pollio Argivo, uno dei tiranni di Siracusa, che per primo lo introdusse in Sicilia. Il Pollio, a sua volta, sarebbe quel vino dolce Haluntium, di cui Plinio disse che nasceva in Sicilia ed aveva sapore di mosto.
Plinio contava ai suoi tempi 195 vini, di cui 50 erano generosi, 12 prodigiosi, e ben 64 contraffatti.

Molto ricca era anche la terminologia che faceva riferimento al modo con cui il vino veniva preparato.
Protroprum (greco Pròtropon): indicava il mosto vergine che veniva recuperato prima della pigiatura;
Mulsum : vino liquoroso, addolcito con il miele;
Proeliganium (greco Omfakitis) : vino ottenuto da uve acerbe, era destinato gli schiavi;
Passum: vino passito;
Tortivum: vino torchiato;
Salsum (greco Thalassitis): vino con aggiunta di acqua di mare che serviva a disinfettare, a chiarificare e a rendere brillante il colore.

Per i Greci poi era importante distinguere i vini anche dal punto di vista organolettico. Non sfugga l’attualità di queste distinzioni:
melos : vino rosso o nero, porpora o sangue; leukòs : vino bianco o giallo;
austeròi : vini aspri; xeroi : vini secchi;
malakòi : vini amabili; glykeis : vini dolci;
òzontes : vini con profumi complessi;
leptoi : vini leggeri; poekèis : vini corposi;
thermos : vino caldo, ricco di alcool.

La storia del vino in Sicilia, per così dire, si ferma qui. Dai Musulmani ai tanti popoli che, dai Normanni ai Borboni, si succedettero nel dominio dell’isola, la produzione vitivinicola segnò il passo in un sonnolento sviluppo, prigioniero dei confini territoriali, spesso altalenante, mai comunque a livello delle enormi potenzialità isolane.
Il periodo musulmano, dall’anno 827 al 1016, fu tuttavia uno dei più felici e più prosperi per l’agricoltura di Sicilia. Gli arabi abolirono l’ager publicus e le grandi masse e, spezzando il latifondo in appezzamenti più piccoli, distribuirono la terra a chi era in grado di coltivarla. Ricostruirono i canali d’irrigazione e introdussero nuove colture: gelsi, agrumi, pistacchi, cotone, canna da zucchero e ortaggi arricchirono le campagne, tanto che la Sicilia in quei secoli, così come oggi, appariva al visitatore quasi un paradiso terrestre.

Fu il 1770 l’anno che vide l’inizio del rifiorire vitivinicolo siciliano. Attraverso il Marsala, messo a punto dal mercante inglese Woodhouse, i vini siciliani furono portati dalle navi inglesi in tutto il mondo, riprendendo il vigore e la fama di cui erano degni.
Anche il piemontese Vermouth, ideato e prodotto nel 1786 da Antonio Benedetto Carpano, aiutò molto la ripresa con la grande richiesta di vini base che in Sicilia si trovavano di qualità e abbondanti.
Nel 1866, un insetto, la Philloxera, che Jules Emile Plancton definì vastatrix, introdotto in Francia con alcune barbatelle americane, sconvolse il mondo del vino in Europa fino al punto da minacciarne la sopravvivenza. Furono ancora i vini di Sicilia, insieme con quelli di Puglia e Grecia - dal momento che in queste regioni la Philloxera arrivò solo più tardi - a supportare con gli ottimi vini da taglio la produzione continentale di vino. La soluzione di impiantare le marze europee su piede americano risolse definitivamente il problema, ma le richieste di vini da taglio siciliani sono rimaste salde fino ai nostri giorni.

Ed è proprio storia di oggi il grande progresso, il grande salto verso la qualità che la vitivinicoltura siciliana sta vivendo, grazie all’impegno di tanti produttori che, con sforzi economici notevoli e tanto amore per la propria terra, hanno rinnovato impianti e cantine, si sono aperti al marketing e hanno guardato al mercato internazionale.
Oggi in Sicilia esiste una gamma vastissima di vini provenienti da pregiatissime uve autoctone, ma anche da uve internazionali, per alcune delle quali (Syrah e il difficile Pinot Nero) è ancora in itinere una qualificata e promettente sperimentazione.
I suoi vini incontrano per genuinità, per corpo ed equilibrio gusto-olfattivo il favore di una utenza sempre più esigente e qualificata e, forti anche di un rapporto qualità/prezzo imbattibile, penetrano i mercati mondiali e vi si attestano con stabilità e costanza.

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2) Tradizione e qualità


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