Estratto da

   La Grande Guida   
dei vini di Sicilia

di Valerio Casalini
Edizioni Città Aperta, Troina (En), 2010


2)   Tradizione e qualità


Non c’è paese al mondo che, come l’Italia, abbia così tanta varietà di viti e di vini. La natura è particolarmente generosa: albe tenui, lunghi tramonti e miti temperature al Nord esaltano nei vini finezza, snellezza e profumo; un sole vivido e possente al Sud dà corpo, colore e alcol; una infinità di microclimi lungo gli oltre mille chilometri della penisola matura vini ricchi e vari di sapore, profumo e grazia.
Anche i terreni sono i più vari: vanno dalla frantumazione di graniti e porfidi alla disgregazione di marne, tufi e calcari e alla erosione delle argille; dai ciottoli dei letti dei fiumi alle sabbie abbandonate dal mare e alle terre vulcaniche.
La vite dà buoni frutti e assicura abbondanti raccolti ovunque, quasi spontaneamente, e i vini che se ne ricavano, con un minimo di cura, sono buoni, genuini e piacevoli.

Questi semplici fatti sono stati in tutti i tempi, per così dire, un bene e un male insieme per quanti alla viticoltura hanno affidato i propri destini. Un bene, perché nei momenti bui della storia e della economia agricola è stato relativamente semplice ripartire proprio dalla vigna per contrastare fame e miseria; un male, perché il vigore delle piante e la grande varietà dei vitigni hanno soddisfatto le aspettative con un minimo impiego di risorse sia economiche che umane. Il vigore ha assicurato quasi spontaneamente un’alta produzione di frutto, la varietà tantissimi vini di tipologie diverse. Sicché i viticoltori italiani si sono sentiti sollevati dall’esigenza di investire capitali per la ricerca e l’ottimizzazione di impianti e strutture. C’è sempre stata la terra ricca e generosa che, anche nella inclemenza della natura, ha garantito la sopravvivenza.
D’altra parte neanche il Mercato è stato mai uno stimolo al cambiamento. A parte qualche eccezione negli ultimi cinque secoli i nostri vini sono serviti per il consumo interno, per le esportazioni fuori porta e per rinforzare i blasonati vini francesi o qualche fuoriclasse italiano; e (più spesso di quanto fosse auspicabile, per aumentarne le quantità in commercio). Solo in tempi più remoti la viticoltura italiana ha avuto momenti di eccellenza: nell’Età preromana con i vini della Magna Grecia, nell’Età imperiale a cavallo dell’inizio dell’era cristiana e nel XV secolo, quando i vini italiani erano merce preziosa di scambio nei commerci delle repubbliche marinare e negli accordi di alleanza fra Stati.

In questo scenario appare assai curioso il rifarsi alla tradizione da parte dei produttori moderni quasi essa fosse un valore aggiunto. Dovrebbero invece prenderne le distanze dal passato vista l’alta e decantata qualità dei vini odierni.
L’incongruenza è che con il richiamo alla tradizione si corre il rischio di identificarsi con una realtà trascorsa che ha in sé un messaggio del tutto contrario a quello che si vuole trasmettere. Molti vini, di nome assai noto, in passato hanno subito un degrado qualitativo assai sensibile a causa di un mercato sempre più avido di bottiglie (il cui numero si sospetta sia andato ben oltre la capacità produttiva del territorio). Solo in tempi recenti questi vini hanno riacquistato qualità e fama, affrancandosi da un inesorabile declino. Sorte che in passato era toccata al Falerno, il più famoso vino dell’antichità, addirittura scomparso dalla scena vinicola romana.
I fatti che hanno determinato il nuovo corso di viticoltura ed enologia e che hanno rilanciato nel mondo l’economia e l’immagine viticola dell’Italia sono noti: l’introduzione del portainnesto americano per contrastare la Fillossera che fra la fine del 1800 e l’inizio del 1900 mise a rischio di sopravvivenza gli impianti di tutta Europa; i progressi della chimica e della biologia; le accresciute conoscenze in campo agronomo, enologico e commerciale; gli sviluppi della genetica delle piante; la ricerca e la sperimentazione. Ma ancor di più ha contribuito la volontà ferma di tanti, tantissimi viticoltori e produttori di vino di perseguire l’alta qualità rompendo con il passato e ripudiando il maligno della sofisticazione che nel 1986 era arrivata a provocare la morte di 25 persone.

“L’immoralità è così grande”, scriveva Plinio, “che non si vende più che il nome dei grandi vini, e i vini stessi sono sofisticati sin dal tino. E così, strano a dirsi, i vini meno stimati sono innocenti”.
L’alta qualità richiede grandi investimenti in vigna, in cantina e nel commercio.
In vigna è fondamentale una selezione clonale del vitigno in funzione del terreno e del progetto industriale programmato. Un vitigno è una popolazione di individui con caratteristiche proprie. Questi si adattano diversamente al terreno e si differenziano per produttività o resistenza alle malattie; alcuni sono idonei a produrre vini freschi e leggeri, altri di medio invecchiamento e altri ancora di lungo invecchiamento. Discriminante è anche una bassa resa, massimo 1÷1,5 kg di frutto per ceppo: poco frutto sulla pianta significa ricchezza di zuccheri e di sostanze polifenoliche e minerali che fanno buono il vino. Ma occorre anche molta professionalità e molta cura per ottenere al momento della vendemmia un frutto sano e maturo. Non è sufficiente avere come riferimento l’esperienza del contadino: quantunque essa sia importante, è indispensabile un supporto scientifico qualificato sia per la routine sia per i numerosi e imprevedibili momenti a rischio.
In cantina si richiedono locali di ampia metratura e, per l’applicazione delle più moderne ed efficienti tecnologie produttive, macchinari, impianti, attrezzature e accessori; tutte cose di costo elevato. Fino a non molti anni fa tante cantine erano composte da un palmento corredato di pesa e da un unico locale in cui erano sistemati fermentini, vasi vinari per la fermentazione, cisterne di stoccaggio in cemento e qualche botte. Pochi erano i macchinari: una pigiatrice diraspatrice, una pompa alternativa per l’invio del mosto con relative bucce ai fermentini, qualche piccola pompa di travaso e per i rimontaggi, tubolature ad innesto rapido, qualche chiave, qualche mazzola e recipienti vari. Il capo cantiniere era lo stesso titolare o un praticone che era responsabile sia del personale sia della produzione e della conservazione del vino. Unici strumenti di laboratorio erano un mostimetro per la misurazione dei gradi zucchero del mosto, un “ladro” (una specie di cannuccia metallica per recuperare i campioni di vino dai recipienti) e un ebuliometro per misurare i gradi alcol del vino. Oggi una cantina è uno stabilimento industriale e alla cura del vino sono preposti enologi diversamente specializzati; altri enologi, più comunemente chiamati “winemaker”, si occupano della progettazione del vino e della messa a punto delle procedure. Laboratori miliardari ne sono il cuore pulsante.
Anche il commercio richiede risorse economiche rilevanti. La penetrazione di un prodotto in un mercato che è divenuto mondiale non può essere affidata solo alla sua bontà. Sono necessarie strategie ben precise, reti di vendita strutturate, esperti managers che ne assicurino la visibilità ed esperti tecnici che ne garantiscano la riconoscibilità e la costanza nel tempo.

In questo contesto così complesso i produttori che raggiungono l’eccellenza sono veramente pochi. Molti comunque hanno prodotti di grande qualità, spesso con un rapporto qualità/prezzo di sicuro interesse. Il pericolo è che fra di essi se ne possano annidare altri che nei confronti della qualità hanno solo la veste e la presentazione mediatica.
Riuscire a navigare fra le etichette, che a migliaia sono proliferate e proliferano, è una impresa ardua per tutti. L’unica difesa è affidarsi ai propri sensi, alla propria cultura e, perché no, a una guida qualificata e alla propria tasca e poi godersi serenamente il bicchiere di vino che in quel momento dà la gioia di essere il migliore del mondo.


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