PER LA LINGUA ITALIANAAttenti agli orribili strafalcioni |
« Italian is considered by many to be the most beautiful of the world's languages. As the transmitter of the great culture of the Renaissance, its influence on the other languages of Western Europe has been profound. Besides being spoken in Italy, it is one of the four official languages of Switzerland, and is also widely spoken in the United States, Canada, Argentina, and Brazil. ... Non si tratta di un articolo scritto in inglese da un professore d'italiano un po’ maniaco, ma della valutazione espressa in un sito commerciale americano che parla di tutte le lingue del Pianeta. |
A proposito delle nostra bella e dolcissima lingua, che noi stessi tendiamo normalmente a sottovalutare, vi sono due classi di errori sui quali vorrei far soffermare l’attenzione dei Lettori (se non altro per aiutarli a far sgranchire i dentriti di qualche neurone impigrito): il progressivo oblio della latinità dell’italiano e l’invalsa mania di scimmiottare espressioni provenienti da culture diverse.
L'italiano, in effetti, non è solo una delle tante lingue neolatine, ma è il risultato dell'evoluzione diretta del latino di Cicerone, nella sua stessa terra, nel corso di 20 secoli. Questa lingua, parlata nella nostra Penisola dai discendenti dell'Arpinate e dei suoi compatrioti, da un certo momento in poi è stata adottata nella letteratura anche nella sua forma volgare, cioè quella parlata dal popolo. Questo idioma, ancorché volgare, era pur sempre latino, e tale continuò ad essere considerato fino a quando non si preferì chiamarlo italiano. Se tuttora l'italiano risulta essere un “latino senza le declinazioni”, dovremmo anche considerarlo come l'autentico “latino moderno”, espressione che appare invece impropria per la lingua artificiale del Vaticano (un latino fondamentalmente rimasto medievale, ancorché ingegnosamente esteso per adattarlo alle nuove esigenze).
In questa ottica, credo che il nostro dotto apprezzamento per l’idioma degli antichi Romani dovrebbe estendersi stabilmente anche a questa nostra povera lingua nazionale, rimasta così a lungo priva di ogni difesa di fronte ai micidiali attacchi recati, non tanto dalle orde barbariche provenienti dall'esterno, quanto dall'incosciente esterofilia dilagata fra noi per troppi decenni. Ed eccoci costretti, ad esempio, a chiamare computer e mouse questi attrezzi che usiamo quotidianamente e che gli anglofoni chiamano, nella loro lingua, calcolatori e topi; e più o meno lo stesso fanno i francofoni, sempre molto attenti alla salvaguardia della loro lingua: ordinateur e souris. La cosa ridicola è che, mentre noi siamo ormai condannati all'uso dei predetti due termini inglesi, quelle stesse parole riproducono due vocaboli perfettamente latini che hanno l'identico significato: computator (calcolatore) e mus (topo)!
Naturalmente si tratta solo di un piccolo esempio, ma la valanga di parole inglesi supinamente adottate dal nostro vocabolario di tutti i giorni ha delle dimensioni decisamente preoccupanti.
E qui mi riallaccio alla questione degli scimmiottamenti, in cui personalmente vedo due distinte manifestazioni, entrambe opinabili.
La prima è la scelta di utilizzare una parola straniera quando esiste un'equivalente parola italiana altrettanto appropriata. Lo vediamo in tutti i campi: authority al posto di autorità, devolution al posto di devoluzione, privacy al posto di privatezza, e così via. Anche nell'ambito delle cosiddette reti sociali, prevale la tendenza a dire community anziché comunità. In molti casi la preferenza per la parola straniera sottintende addirittura un'arbitraria alterazione del contenuto semantico originario del termine inglese: ad esempio, testimonial, che vuol dire attestato (cfr. lettera testimoniale) ed attestatore, viene usato in italiano (ammesso che lo si possa chiamare italiano) con un significato legato alla mera notorietà del personaggio pagato per la pubblicità, sgravando implicitamente quest'ultimo dalla sua oggettiva responsabilità di garante della qualità del prodotto pubblicizzato.
La seconda manifestazione dell'anomala smania di adottare senza riflettere qualsiasi nuova espressione che provenga dall'estero (per lo più dagli Stati Uniti, ovviamente) ed abbia una sufficiente apparenza esotica, consiste nel non accorgersi che si tratta di parole latine, nate ed affermatesi proprio a casa nostra. Ed ecco allora la tentazione di aggiungere una “s” finale a queste parole per metterle al plurale, come nel caso di curriculum, memorandum, addendum e simili; oppure in quello di sponsor, vocabolo anch'esso assolutamente latino. Il massimo dell'aberrazione viene raggiunto dall'ampia schiera di pseudo-colti che non rinunciano a sfoggiare il loro miglior accento texano nel pronunciare parole latine come media, plus, premium, senior e junior (*), che assumono di conseguenza le tipiche sonorità d'oltre-oceano: “mìdia”, “plas”, “prìmiom”, “sì-niah” e “giù-niah”…
Non ho mai sofferto il mal di mare, ma il mio stomaco, in questi casi, si ribella.
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NOTE
Questo testo è stato da me scritto il 20 febbraio 2008 alla comunità "Scripta" della rete sociale Neurona, poi scomparsa in seguito all'assorbimento nell'ambito di Xing. Alcuni piccoli ritocchi sono poi stati apportati al testo originario, con modifiche pressoché impercettibili poiché, purtroppo, i malvezzi segnalati nel 2008 sono rimasti - da allora - esattamente gli stessi.
(*) La parola latina si scrive iunior, ma è ammessa anche la grafia con la i lunga iniziale, fermo restando che in italiano i caratteri I e J sono considerati due forme di un’unica lettera, ovvero la nona lettera del nostro alfabeto.
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